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Parole

ALESSITIMÌA

MARGHERITA GIROMINI - 04/05/2018

alessitimiaFermiamo ancora per un momento l’attenzione sugli atti di bullismo di ragazzi e adolescenti, giovani che si relazionano con un linguaggio impositivo, che ricorrono a gesti e ad azioni violente per incutere timore e riverenza nell’altro, che quando sono arrabbiati o anche solo contrariati reagiscono al disagio con comportamenti aggressivi.

Se li osserviamo possiamo notare che faticano a manifestare gioia o tristezza, che possiedono un vocabolario così limitato da non contenere le parole adatte alle tante situazioni emozionali dell’esistenza.

Gli psicologi individuano nelle carenze dell’educazione emotiva una possibile causa di certi comportamenti, che derivano direttamente da modelli genitoriali non positivi, spesso maturati all’interno di famiglie a loro volta carenti di affetto. Ebbene, ciò che oggi registriamo nei ragazzi non sarebbe altro che la lente d’ingrandimento delle fragilità di noi adulti.

Quanto è difficile trovare le parole per esprimere emozioni e sentimenti lo sappiamo tutti. Anche se ci stiamo abituando alla povertà dei messaggi quotidiani che corrediamo delle faccine degli emoticon di Facebook o di Whatsapp: una che ride, quella che piange o sospira, l’altra con la bocca a cuoricino che manda baci.

Trovo un esempio positivo in telefilm e film, soprattutto americani, dove vediamo una madre o un padre che salutando il figlio concludono con un “Ti voglio bene”, frase che obbliga l’altro a rispondere “Anch’io mamma, anch’io papà”.

Questo a me sembra già un discreto esercizio linguistico, semplice all’apparenza ma faticoso: provare per credere. Con le varianti per i meno intimi, anche queste sperimentate: “Grazie per il bel pomeriggio, sono stata proprio bene”, oppure: “È stato bello conoscerti” al termine di una chiacchierata con una persona appena incontrata; che può continuare con un “Meno male che c’eri tu, non avrei saputo come fare”. Frasi più lunghe di un semplice grazie che aprono la porta a una comunicazione affettiva più intensa e dispongono al dialogo. L’incapacità di esprimere ciò che si prova, al contrario, produce un forte handicap nelle relazioni e funge da freno allo scambio verbale tra gli individui.

In linguaggio tecnico si definisce “alessitimìa” la difficoltà di verbalizzare i propri vissuti, che comporta un deficit della competenza emozionale ed emotiva, e nei casi più gravi l’incapacità di percepire, riconoscere, mentalizzare, per poterli descrivere verbalmente, i propri e gli stati d’animo altrui.

Etimologicamente alessitimìa sta per “mancanza di parole per le emozioni”, che a livello educativo diventa una sorta di “analfabetismo emozionale”.

Ne sono colpite in modo palese le giovani generazioni. Ma anche tanti adulti che, conducendo una vita di relazione all’apparenza normale, riescono a nascondere le difficoltà comunicative dietro il paravento di atteggiamenti come diffidenza, indifferenza o riservatezza, modalità socialmente accettabili.

Ma torniamo ai giovani, quelli a cui non è stato insegnato a pronunciare frasi del tipo “Sono proprio arrabbiato perché …”, oppure “Sono contento di …. perché …”.

L’alessitimico è refrattario all’intimità e all’empatia, sovente appare disinteressato alla sofferenza e al vissuto emotivo degli altri. Difficilmente prova il bisogno di chiedere conforto ad un altro perché per esprimere verbalmente una richiesta di aiuto bisogna aver interiorizzato le parole corrispondenti ad ogni emozione.

Nel caso di sentimenti come la rabbia o il disagio la parola viene sostituita dall’azione diretta, vale a dire dalle aggressioni fisiche vere e proprie.

Non tutti i bulli e i loro sodali sono affetti da alessitimia. Però sia i primi sia i secondi si mostrano insensibili al dolore provocato nelle vittime e rafforzano il loro stile aggressivo e persecutorio dentro un gruppo che sostiene le bravate senza mettere in campo alcun momento di auto riflessione.

Ma a chi spetta educare i giovani all’emotività? La famiglia è il luogo dove si apprende a gestire l’affettività, dove si assorbe lo stile espressivo che ci dà l’imprinting. “È da zero a tre anni che si diventa qualcuno” dice il filosofo Umberto Galimberti, e le neuroscienze sembrano confermarlo.

Ma molto può recuperare la scuola offrendo a bambini e ragazzi gli strumenti cognitivi indispensabili per esternare il proprio sentire, per fornire le parole necessarie per “dire”, mutuandole sia dalle materie di studio, in particolare la letteratura, sia da un esercizio costante al dialogo interpersonale.

A scuola è possibile recuperare quella “sfera del cuore” che tanta parte ha nell’apprendimento e nella formazione personale degli individui.

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