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Zic & Zac

STATO E MAFIA

MARCO ZACCHERA - 04/05/2018

Mori, Mancino e Dell’Utri, imputati al processo Stato-mafia

Mori, Mancino e Dell’Utri, imputati al processo Stato-mafia

Le sentenze non si dovrebbero mai commentare a caldo, ma piuttosto accettare e – soprattutto – bisogna leggerne le motivazioni per capire i ragionamenti sottostanti alle scelte dei giudici.

Vale soprattutto per quella che ha portato la Corte di Palermo a comminare in primo grado pesanti pene ad imputati eccellenti ed ai vertici dei Carabinieri per presunte connivenze mafiose negli anni ’90.

È quindi corretto augurarsi che le motivazioni siano chiare, inequivocabili e precise perché la sentenza appare contraddittoria rispetto al prevedibile ed a quanto era emerso nel lunghissimo dibattimento, durato cinque anni.

Per cominciare è una sentenza di linea opposta rispetto ai “filoni” secondari della stessa inchiesta chiusi con il proscioglimento degli imputati, il che stride con le condanne di oggi trattandosi degli stessi fatti.

Unico assolto – scontato – l’ex ministro Mancino, ma solo perché le intercettazioni che lo chiamavano in causa coinvolgevano la Presidenza della Repubblica che pose il “veto” al loro utilizzo – veto accordato – con conseguente stralcio dagli atti, distruzione delle possibili prove e quindi assoluzione dell’allora ministro che così risulta oggi estraneo ai fatti.

Perché Napolitano non volle l’utilizzo di tali intercettazioni? Se non coinvolgevano nessuno, quelle prove andavano utilizzate, se invece coinvolgevano parti politiche a lui vicine la loro distruzione avrebbe (ha) permesso ad alcuni politici di venirne fuori (come è stato per Mancino) e ad altri (Dell’Utri) invece no, ma allora l’utilizzo del segreto di stato sarebbe stato una forzatura dei fatti.

Un altro aspetto che non si capisce è quali vantaggi possa aver avuto la mafia nella trattativa con lo Stato che oggettivamente non risultano esserci essere stati, ma soprattutto quale sia stato il ruolo effettivo del generale Mori e degli altri vertici degli inquirenti che (forse) promisero vantaggi a pentiti e confidenti, ma che portarono in concreto all’arresto dei vertici mafiosi.

Quale polizia al mondo non usa questi metodi se vuole arrivare ad un risultato? Allora non c’erano ufficialmente i “pentiti” che negli anni successivi permisero di colpire mandanti ed esecutori (anche se sempre con molte perplessità sul loro ruolo) ed è almeno comprensibile che in qualche modo i carabinieri abbiano spinto qualcuno a confessare garantendo dei vantaggi o non avrebbero mai potuto raccogliere confessioni, indizi e notizie indispensabili alle indagini.

Ultimo aspetto non esaltante, le prese di posizione pubbliche della Procura di Palermo che dopo il verdetto ha trasformato una sentenza in una auto-dichiarata esultante vittoria con relative polemiche di stampa e all’interno del CSM, organo di autogoverno della Magistratura che ancora una volta si dimostra politico (partitico) come non mai.

Morale: leggeremo le motivazioni, ma intanto “a pelle” ci sta tutta l’impressione di una sentenza – arrivata a 25 anni dai fatti ! – più “politica” che non basata sulle carte processuali. Facile prevedere appelli e contrappelli e il correre degli anni finché sui diversi personaggi in scena il tempo non avrà progressivamente eliminato testimoni ed imputati ed i misteri di Palermo torneranno nell’oblio.

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