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Editoriale

TERRORE

MASSIMO LODI - 18/05/2018

terroreSe arretrassimo di due secoli e mezzo, prendendo in dote un francesismo rivoluzionario, potremmo chiamarlo il governo del terrore. Senza pericolo d’esagerare. Non c’è infatti paura per quel che potrebbero combinare Cinquestelle e Lega insieme: c’è allarme, sgomento, panico. Oltre che dimostrarlo i mercati internazionali -i cui giudizi non vengono dalle pulsioni d’un gruppo di orchi, ma da valutazioni di comune/ovvio buonsenso- lo attestano le chiacchiere circolanti in qualunque caffè, autobus, mensa, vagone ferroviario e aggiungetevi il locale ricreativo o mezzo di trasporto che vi pare.

Ha ragione Di Battista, oracolo grillino: bisogna dar retta ai bar di paese prima che ai burocrati di Bruxelles. Ci s’infili lui per primo e presti orecchio teso, nei ritrovi della gente qualunque, perbene, laboriosa, risparmiatrice, preoccupata del futuro: ha benissimo capito, questa gente, che se si provasse a realizzare la metà dei mirabolanti/sciagurati programmi gialloverdi, lo Stato colerebbe a picco. E questa gente non potrebbe dire, come tante volte le han detto schiere di demagoghi: tanto peggio per lo Stato. Eh no: tanto peggio per lei. Per il suo stipendio, per la sua pensione, per i suoi denari faticosamente accumulati in una vita di sacrifici.

Eccolo il punto, a farla breve e concreta. Un governo populista, che populista lo fosse davvero, non farebbe gl’interessi del popolo, ma lo sventurato contrario. Lo manderebbe in malora, perché guidato da dilettanti, animato da superficialità/incoscienza, attaccato al potere per il potere. Altro che rivoluzione contro la casta, le poltronerie, i privilegiati: conquisterebbe gli scranni istituzionali un ceto politico nuovo all’apparenza, vecchissimo nella sostanza. Pur d’insediarsi a Palazzo Chigi e nelle sue dependance, Di Maio e Salvini sono disposti a mischiare il non mischiabile, a tenere insieme programmi confliggenti, a svendere le promesse elargite in abbondanza, a usare strumenti antidemocratici (basti pensare al “Comitato di conciliazione”, organismo estraneo all’esecutivo, che avrebbe l’agio d’imporre sue decisioni a premier e ministri: una sorta di neo Gran consiglio fascista). Se ne dicevano di tutti i colori, fino al 4 marzo scorso. Poi si son messi a farne d’ogni colore, a cominciare dallo stravolgimento delle regole costituzionali nell’infinita pochade delle trattative, e nel continuo e ridicolo saliscendi al Quirinale, e nelle presuntuose/desolanti dichiarazioni sulla “storia che stiamo scrivendo” e “sull’Italia da ridare agl’italiani”. Ma fateci il piacere.

Il presidente della Repubblica sta avendo così certosina pazienza verso i giacobini un tanto al chilo da farcela giudicare troppa. A ogni richiesta di tempo supplementare, non nega il consenso con lo scopo di togliere qualsiasi futura scusante agli eventuali protagonisti d’una fallimentare débacle. Un atteggiamento corretto, nessuno lo nega. Ma fino a che punto opportuno, è lecito/doveroso discuterne. Se i leader dei partiti che aspirano a guidare l’Italia cambiano a ripetizione le carte in tavola, prendono tempo e allungano il brodo -per esempio con la sceneggiata, offensiva verso milioni di votanti, delle ristrette consultazioni on line e via gazebo- non sarebbe il caso di fargliela piantare voltando pagina? Cioè: non siete stati capaci di mettere insieme un governo adeguato, passate al prossimo giro. Non ci vorranno molti mesi: quelli necessari a un esecutivo di transizione/garanzia/servizio per salvare il Paese dalla rovina, modificare la legge elettorale e riaprire le urne. Nella speranza che la lezione cui stiamo assistendo sia servita, e che nelle more della devastante congiuntura toccataci non si debba pagare un elevato prezzo all’insipienza dei casuali vincitori d’una sciagurata lotteria.

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