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Attualità

SORTE CONDIVISA

EDOARDO ZIN - 18/05/2018

nomadelfia

Don Zeno con i primi ragazzi di Nomadelfia

Senza neanche dover sollecitare la memoria, ricordo che era una bella giornata di fine autunno del 1962 quando, sulla 500 rossa fiammante di Walter, caro amico di gioventù, da Roma ci portammo a Nomadelfia, alle porte di Grosseto, per incontrare don Zeno, allora ancora in odore di sospetta “eresia” e di essere comunista.

Eravamo andati ad incontrarlo per conoscere la città di Nomadelfia da lui creata e per dirgli che “L’Aspirante”, il giornale per i ragazzi dell’Azione Cattolica che lui aveva fondato a Carpi nel 1924, continuava ancora le pubblicazioni e noi due ne eravamo gli scribacchini.

Nomadelfia (ossia città “dove la fraternità è legge”) ospitava allora un centinaio di famiglie, ognuna delle quali era ospitata in una casetta o in una tenda ed era affidata ad una “mamma per vocazione” e le famiglie venivano raggruppate per alcune attività comuni, come i pasti. La scuola era gestita dalla comunità e non c’erano voti. Don Zeno ci spiegò che a Nomadelfia tutto era in comune sull’esempio delle prime comunità cristiane (“La moltitudine di coloro che erano divenuti credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era in comune”): non si usava danaro perché la proprietà privata non esisteva, ma la famiglia provvedeva alle necessità di ognuno; si lavorava all’interno della cittadella e nessuno veniva retribuito; chi lavorava al di fuori di Nomadelfia versava i suoi guadagni alla comunità; compiuti i 21 anni coloro che decidevano di aderire al modello di vita della “nuova civiltà” ottenevano la cittadinanza; tutti si chiamavano solo per nome e don Zeno usò lo stesso garbo nei nostri riguardi ci invitò a fare altrettanto con lui.

È questa la città che papa Francesco ha visitato il 10 maggio scorso. Giunto di mattina presto, ha reso omaggio alla tomba di don Zeno deponendo sulla sua tomba una pietra con il suo nome aggiungendola alle pietre lasciate dagli abitanti di Nomadelfia, ha pregato sulla tomba di “mamma Irene”, la prima mamma affidataria, e di una neonata, la più piccola dei nomadelfi. Nella cappellina lo attendevano due famiglie alle quali Francesco ha affidato due figli dicendo loro:” Madre, ecco tuo figlio!”.

Nella sala della comunità, papa Francesco ha rivolto a tutti il suo saluto: ”La legge della fraternità, che caratterizza la vostra la vostra vita, è stata il sogno e l’obiettivo di tutta l’esistenza di don Zeno, che desiderava una comunità di vita ispirata al modello delineato negli Atti degli Apostoli…Di fronte alle sofferenze di bambini orfani o segnati dal disagio, don Zeno comprese che l’unico linguaggio che essi comprendevano era quello dell’amore…Vi esorto a continuare questo stile di vita, confidando nella forza del Vangelo e dello Spirito Santo, mediante la vostra testimonianza cristiana”.

In queste parole vedo la risposta più bella a quelle angosciate che don Zeno scrisse nel 1955 e che io ricopio dal libricino che mi donò durante il breve incontro: “Ho deciso e mi sono fatto come loro: solo con essi, abbandonato con essi, desolato con essi, reietto con essi in mezzo a due miliardi e mezzo di fratelli… Si è fratelli quando l’amore è reciproco, quando cioè si condivide volontariamente la stessa sorte”.

La Costituzione di Nomadelfia è il discorso della montagna: i poveri sono la parte positiva del consorzio umano e vedranno Dio, sono assetati di giustizia, mansueti, consolati da altri fratelli, sono perseguitati perché turbano le nostre anime, sono portatori di pace perché non forzano il naturale corso della storia, sono misericordiosi perché non conoscono la malvagità umana. Don Zeno è un grano del rosario di preti del nostro secolo: don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, don Tonino Bello che continuano la schiera che va da Benedetto, attraversa Francesco fino ai santi del secolo scorso: da don Bosco a don Calabria, di cui don Zeno era amico: tutti hanno testimoniato che dalla carità può nascere la contestazione che mette in crisi non già sistemi politici, ma la coscienza degli uomini.

Non so se le migrazioni di nubi, che avvolgevano l’elicottero che portava Francesco dalla Maremma alle dolci colline che attorniano Firenze, gli abbiano permesso di contemplare il paesaggio tutto poggi tondi e morbidi, attorniati dall’Arno d’argento che si snoda tra terreni grigi e giallastri alternati a quelli di un bel verde chiaro, dove appuntiti cipressi, intenti a parlare al cielo, segnano il confine tra un podere e l’altro. Abbiamo visto, però, che quando l’elicottero è atterrato nei pressi di Loppiano, la caligine, come per incanto, è sparita e il sole ha inondato lo spazio verde: lo sguardo del Papa spaziava d’ogni parte senza confine, proprio come Loppiano.

Chi conosce Loppiano sa che questa cittadella internazionale è “un laboratorio di convivenza umana, bozzetto di mondo unito e testimonianza di come potrebbe essere la società se fosse basata sull’amore reciproco del Vangelo”: a Loppiano si vive con il lavoro della terra, si pratica la cultura dell’incontro, del dialogo tra le religioni, dell’economia di comunione, dell’arte, dello studio come ricerca di condivisione, dell’ospitalità. Gli abitanti, laici sposati o consacrati, preti vivono insieme nello spirito della tenera spiritualità vissuta da Chiara Lubich e dalle sue prime compagne. Il tutto in uno stile laico, feriale, inclusivo e aperto.

Francesco, dopo aver pregato nella chiesa dedicata a Maria Theotokos (Madre di Dio), parla agli abitanti di questa città “nota nel mondo perché è nata dal Vangelo e del Vangelo vuole nutrirsi”, ringrazia i “pionieri”, che, alla luce dell’insegnamento del Concilio, “hanno lasciato le loro terre, le loro case, i loro posti di lavoro per venire qui a spendere la vita e realizzare il sogno” ed elogia gli attuali abitanti di Loppiano perché, seguendo l’esempio dettato dalla lettera agli Ebrei: “avete accettato con gioia di essere privati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e duraturi”. A loro, papa Francesco consegna un messaggio di tre parole-chiave: ”parresia”, cioè franchezza nel dare testimonianza della verità e contemporaneamente fiducia in Dio e nella sua misericordia, “hypomoné”, cioè restare stabili nell’abitare le situazioni impegnative che la vita presenta e “umorismo, atteggiamento umano che più si avvicina alla grazia di Dio” e che sfiora l’animo senza insistere.

Non poteva mancare Papa Francesco d’ invitare gli abitanti di Loppiano “ a non starsene tranquilli fuori dal mondo, ma uscire per incontrare, prendersi cura, per gettare a piene mani il lievito del Vangelo nella pasta del mondo” e a “camminare insieme, con stile sinodale, come Popolo di Dio”.

A Nomadelfia, espressione dell’amore di un prete, si combatte il disagio, la fragilità intrecciandoli con il calore di una famiglia. A Loppiano, espressione della vocazione di laici, si ricostruisce l’unità ritessendo con la preghiera e la perseveranza la trama dell’umanità lacerata dagli squarci delle divisioni religiose, economiche, politiche. In tutti e due i casi si applica alla lettera il Vangelo.

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