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Presente storico

GARDEN CITY

ENZO R. LAFORGIA - 25/05/2018

Varese, la magnolia di parco Baroggi

Varese, la magnolia di parco Baroggi

Mi dicono che tra i botanici sia ancora molto nota e celebrata la figura di Charles de l’Écluse. Il suo nome, in verità, circola più comunemente nella forma latina, quella che si ritrova nei frontespizi delle sue opere: Carolus Clusius. Era un olandese vissuto nel sedicesimo secolo (si spense nel 1609). E benché avesse coltivato studi filosofici (ebbe la fortuna di seguire a Wittenberg il celebre Filippo Melantone), scoprì una travolgente passione per il mondo vegetale. Assecondando questa sua passione, viaggiò per l’Europa, sempre a caccia di nuove piante, di cui poi lasciava minuziose descrizioni. Fu lui, ad esempio, ad acclimatare l’ippocastano, di origine balcanico-asiatica, giunto a Vienna nel 1576. E fu sempre Carolus Clusius ad appassionarsi ad un bulbo, che, probabilmente, era arrivato ancora una volta dal vicino Oriente a metà del Cinquecento.

Questo bulbo, inizialmente scambiato per un parente della cipolla, era fiorito un po’ per caso. I suoi fiori colorati si sviluppavano secondo una forma che richiamava quella di un turbante orientale. E infatti Clusius volle chiamarli proprio così: «tulipa», dalla parola turca «tülbent», che significa per l’appunto «turbante».

Come si sa, l’interesse smodato per questo fiore avrebbe scatenato, nel corso del 1600, la «tulpenmanie»: la crescita esponenziale della domanda di bulbi provocò quella che oggi gli storici considerano una vera e propria bolla speculativa.

Questi fiori meravigliosi a forma di turbante, decorano oggi i nostri giardini. Anche gli splendidi giardini che rendono così attrattiva la città di Varese. Come i cipressi di Nootka, originari del Nord America (Nootka è il nome di un’isola canadese), e quelli del Kashmir; come gli abeti del Caucaso e della Norvegia; come le palme nane, provenienti dall’area mediterranea; come i cedri del Libano, i platani orientali; come il ginkgo biloba, le cui remote origini risalirebbero alla Cina; come le maestose sequoie americane.

C’è tutto il mondo nei giardini di Varese.

E come avviene tra gli uomini, anche le piante si incontrano e si mescolano.

Ogni anno, puntualmente, la primavera in città è annunciata dalla spettacolare, esplosiva fioritura della magnolia del parco Baroggi, all’inizio di via Sanvito. Dovrebbe trattarsi, così mi hanno riferito, di una magnolia di Soulange, frutto di un incrocio realizzato da Étienne Soulange-Bodin, che, prima di dedicarsi al giardinaggio, era stato ufficiale della cavalleria napoleonica.

I giardini sono luoghi aperti e accoglienti per ogni specie vegetale. Fiori e piante ed alberi possono arrivare anche da molto lontano, ma, se ben curati, possono acclimatarsi e, chissà, forse anche mettere radici.

I giardini sono anche, tradizionalmente, luoghi in cui si ricerca la pace. Sono in questo simili agli orti di cui parla Montale, dove «delle divertite passioni / per miracolo tace la Guerra». E in questo senso, la loro frequentazione dovrebbe contribuire al nostro miglioramento. Come suggerirebbe l’invocazione di Socrate, che conclude il Fedro. In questo dialogo, il vecchio filosofo ed il suo interlocutore si accomodano, lontano dal rumore della città, all’ombra di un grande platano e, alla fine dei loro discorsi, Socrate, rivolgendosi al dio Pan e agli altri dei che popolano i boschi, chiede che gli sia concessa «la bellezza interiore».

Ma la natura, ordinata e orientata dall’uomo nei giardini, è anche immagine vivente del nostro divenire, del breve e involontario nostro passaggio su questa terra. E i giardini sono pertanto metafora di questa nostra condizione, narrata in forma di poesia vegetale. Rubo questa espressione ad Italo Calvino, che, nel 1976, visitò il Giappone (e i suoi più famosi giardini), restituendo questa sua esperienza in una serie di articoli scritti per il «Corriere della Sera» e poi raccolti nel volume Collezione di sabbia. È in uno di quegli articoli, intitolato L’amara ricchezza delle ville di Kyoto, che Calvino parla dei giardini come di poesie particolarissime, eternamente rinnovantesi:

«Come le parole in una poesia: così i vari elementi del giardino vengono messi insieme. Con la differenza che queste parole vegetali cambiano di colore e di forma nel corso dell’anno e ancor più col passare degli anni, mutamenti in tutto o in parte calcolati nel progettare la poesia-giardino. Poi le piante muoiono e vengono sostituite con altre simili piantate negli stessi luoghi: il giardino nel passare dei secoli viene continuamente rifatto ma resta sempre lo stesso.»

In questo mese di maggio, a Varese si è tornati a parlare del festival «Nature Urbane». Un festival del paesaggio, che ha al suo centro proprio l’apertura di ville e giardini, pubblici e privati. Mi piace pensare che a questa idea di Festival corrisponda un’idea di città. Aperta e accogliente. Una città, che come un giardino, sia progettata in funzione degli uomini che la abitano, del loro benessere, della loro pace. Mi piace pensare che, rinserrati i cancelli dei giardini, terminato il clamore dell’evento, si possa, in quel preciso istante, ripetere ciò che Candido dice alla fine della sua storia: «Il faut cultiver notre jardin». Adesso, dobbiamo coltivarlo, il nostro giardino.

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