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Politica

BIVACCHI DI MANIPOLI

MANIGLIO BOTTI - 01/06/2018

zagrebelsky

Gustavo Zagrebelsky

Per denunciare “anomalie” nel tentativo di formare un nuovo governo, poi abortito, alla fine, s’era pronunciato anche il professor Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Consulta, che un anno e mezzo fa era stato uno dei più strenui difensori della Costituzione, insidiata dalla riforma di cui s’era invece fatto paladino l’allora presidente del consiglio Matteo Renzi. Al punto da minacciare – Zagrebelsky – l’abbandono della cattedra universitaria del dipartimento di giurisprudenza dell’università di Torino, qualora la riforma fosse passata nel referendum confermativo (o oppositivo) sottoposto agli elettori italiani.

E con Zagrebelsky, più o meno, con gli stessi contenuti si sono pronunciati altri costituzionalisti e saggisti “critici”, per esempio il professor Enzo Cheli, già vicepresidente della Corte, e Sabino Cassese.

La riforma – com’è noto – fu bocciata dal referendum con una sostanziosa maggioranza di no. Ma il fatto che, oggi, due dei partiti che all’epoca erano pure schierati nel fronteggiare quella riforma costituzionale (e caldeggiandone un’altra di cui però, strada facendo, dal 4 dicembre 2016, si sono perse le tracce) si siano messi insieme in modo irrituale, a-costituzionale e forse anche anti-costituzionale, ha di nuovo fatto scendere in campo con posizioni nette e chiare il professore.

A cominciare da quel “contratto-programma” che Matteo Salvini e Gigi Di Maio, leader di Lega e il Movimento Cinque Stelle, due partiti in un certo senso anche antitetici l’uno all’altro, ma usciti vincitori dalla consultazione elettorale, avevano deciso di discutere e di siglare per arrivare, insieme, alla guida di Palazzo Chigi.

E il punto sta proprio qui. Di una tale procedura, di una tale dinamica istituzionale – almeno in chiaro – non si parla nella Costituzione, né nella norma né nella prassi. Il professor Zagrebelsky vi avrebbe rilevato l’assoluta latitanza, e forse anche una non costituzionalità rispettosa della sovranità popolare. Sebbene, a quanto pare, gli elettori non sembrano più votare partiti e programmi, quanto persone spesso (quasi sempre) le une contro le altre armate, indipendentemente da un programma prima vagamente enunciato e sottaciuto e poi ancora più vagamente riscritto, reimpostato in corso d’opera e addirittura cambiato. Non si sarebbe trattato – infine – di un programma di governo ma soltanto di un “contratto” (così detto perché non firmato da partiti alleati) finalizzato al raggiungimento e al mantenimento del potere.

In tale ambito non è difficile riconoscere a tutto svantaggio del dibattito parlamentare (ma accade così già da tempo) un altro colpo di piccone sferrato dagli esecutivi; gli esecutivi dei singoli partiti. Non è un caso, a tale proposito, e bisognerebbe un po’ rifletterci su, che entrambi i due partiti-movimento avessero incluso nel “contratto di potere”, più o meno apertis verbis, l’abolizione dell’assenza del vincolo di mandato (art. 67 della Costituzione), uno degli ultimi baluardi del parlamentarismo liberale e democratico. I due dioscuri Salvini e Di Maio (copyright Corriere della Sera) temevano (temono) i così detti “cambi di casacca” tra singoli deputati o senatori decisi a mantenere una propria autonomia di indirizzo, obiettivo che però si potrebbe raggiungere non già con l’abolizione del titolo costituzionale, ma con una modifica del regolamento che dovrebbe impedire ai “dissidenti” l’adesione a un altro partito, e consentire per esempio l’entrata nel gruppo misto (com’è in altri Paesi).

È difficile, dunque, che un tale modo di concepire il dibattito programmatico e politico non andasse nel significato a incidere e a minare tout court il parlamentarismo, anche con recenti e durissime prese di posizione (“in nome di tutti gli italiani”) nei riguardi di intereventi istituzionali non consoni al proprio ridotto pensiero. Niente di nuovo. A ben vedere ciò è spesso un’idea preliminare della dittatura (“Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli”… ecc. ecc.).

Altra cosa – sempre in via procedurale, e non parliamo dei contenuti – era stata la decisione di sottoporre il governo (e l’operato del presidente?) a una sorta di “camera di consultazione o compensazione”, un Gran Consiglio di cui nella Costituzione “più bella del mondo” non si parla da nessuna parte.

E poi le nomine: l’incarico “obbligato” a Giuseppe Conte, indicato non dal presidente ma dai partiti e a posteriori del “contratto” di potere appena siglato. La non conferma di un ministro proposto come un aut-aut…

Le decisioni di Mattarella, la scelta di un governo di servizio o del presidente – per altro anche questo introvabile nelle norme costituzionali – sono passate sotto gli occhi di tutti. Tali da attribuire alla crisi una peculiarità mai registratasi in settantadue anni di Repubblica.

Non s’è capito bene perché il Capo dello Stato abbia agito come ha agito – o almeno chi scrive non l’ha capito –, se per stanchezza o per eccessiva volenterosa generosità o “perché non poteva fare altro” (ma quest’ultima considerazione, potrebbe apparire anche priva di senso, perché c’è sempre e in ogni caso un altro modo di affrontare le cose) o per evitare un nuovo, immediato ricorso alle urne, che a prescindere non è mai un errore. E, dunque, s’è perso solo del tempo.

Più volte il leader del Movimento Cinque Stelle Gigi Di Maio, diventato tale grazie a una consultazione sul web che avrebbe coinvolto solo alcune migliaia di “simpatizzanti”, un modo insolito per essere definito leader, è andato in giro dicendo che stava per avviarsi il governo del cambiamento, e quindi la Terza Repubblica. A dire il vero, in assenza di modifiche sostanziali (e approvate dal Parlamento secondo norme ben chiare) della Costituzione, siamo fermi sempre alla prima. Se no potremmo dire anche la quarta, la quinta, la settantesima quanti sono gli anni passati dal ’48 a oggi…

Sempreché, della “vecchia” Costituzione, qualcuno non abbia tentato, in parte riuscendovi, di fare strame nel silenzio quasi generale.

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