Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Souvenir

RICAMO E TRAFORO

ANNALISA MOTTA - 01/06/2018

ricamoEccola, la mia pagella elementare degli anni ’50: un quartino azzurrognolo formato quaderno, con nome, classe, date e voti vergati pazientemente con penna e inchiostro in un’ azzimata grafia obliqua.

Ed ecco le materie della classe Prima : Religione, Comportamento ed educazione morale e civile, Educazione Fisica, Lettura scrittura ed altre attività espressive, Aritmetica e geometria, Attività manuali e pratiche.

La Lingua Italiana, la Storia geografia e scienze, il Disegno recitazione e canto erano invece valutate dalla Terza in su. Perché al secondo ciclo ci dovevi arrivare, e c’era anche un arduo ostacolo di mezzo (avevano un bel dire che si trattava di “un esamino”!). Un esame di Dettato, Pensierini, Conticini, Poesia a memoria, Disegno. Ve li immaginate i nostri marmocchi del terzo millennio affrontare una prova così psicologicamente destrutturante a soli sette anni?

Mi piaceva tutto, della scuola, ma la più divertente era “ Attività Manuali e Pratiche”, che entravano nel tuo bagaglio scolastico fin dal primo giorno di scuola. Certo, perché, se lasciavi gli studi dopo la Seconda o la Quinta (credeteci, non era cosa rara) qualche cosa dovevi pur saper fare!

Quello dei “lavoretti” rigidamente diversificati tra maschi e femmine, era l’unico orario in cui la nostra classe si sdoppiava, maschi di qui, femmine di là. Essendo la mia scuola, come raccontavo altrove, ruspante e di periferia, le classi infatti erano tutte eccezionalmente miste, comprese le “differenziali”.

E le Attività? Noi bimbe cominciavamo a pasticciare con l’ago e il filo su pezzuole di cotone che venivano disegnate a matita (copiativa) per ricavarne improbabili fiorellini e grechine; imparavamo a impugnare nel modo giusto l’uncinetto e i ferri, e a ridurre in gomitolo con l’arcolaio le matasse di lana, che si imbrogliavano continuamente facendo correre la maestra tra un banco e l’altro. Usavamo forbici normali – non quelle arrotondate di oggi – e aghi veri, e ferri da calza lunghi e appuntiti; carta carbone per copiare la cifre sulla stoffa, ditale e telaio tondo. Solo più avanti si passava all’”imparaticcio”, un pezzo di stoffa che doveva avere la trama abbastanza larga da consentire l’asporto di fili orizzontali per ricamarci poi l’ “à jour”. (Ho bell’e capito, qui ci vorrebbe un vocabolario per intendersi…).

Comunque, i ricami traforati che si vedono ancora nelle case dei nonni, sui cuscini o nelle lenzuola di lino bianco, vengono tutti da questi primi goffi tentativi di dare a uno straccetto la qualifica di “centrino”.

I maschi, invece, andavano in un’altra aula, a “fare traforo”. La misteriosa attività a volte veniva espletata in contemporanea con i nostri lavori donneschi, e allora vedevamo i nostri compagni in pantaloni corti arrabattarsi intorno a un foglio di compensato, fissato al banco con un morsetto, armati di un seghetto dalla forma singolare, manico rosso di legno, struttura a U di metallo a cui era avvitata una lama lunga e sottile. “State lontane, bambine, che è pericoloso!” diventava il ritornello della maestra. Sì, perché la lametta spesso e volentieri “saltava”, sia per le vene del legno che per l’inesperienza dell’apprendista, e qualche dito sanguinava. Secondo le intenzioni si sarebbero dovuti ottenere parti di un aeroplano da assemblare, pupazzi giocattolo da dipingere, quadretti in rilievo da appendere: ma non ricordo risultati migliori dei nostri patetici tentativi di ricamo.

Intanto però le mani imparavano gesti e fatiche, si impastavano con la materia e gli imprevisti della realtà, e tu provavi l’orgoglio di averne trasformato – in meglio – almeno un pezzettino.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login