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Attualità

FRATELLO

EDOARDO ZIN - 15/06/2018

rifugiati “La pacchia è finita!” – sbraitò dall’alto del palco il nuovo ministro degli interni.

 Chissà se lo avrà saputo anche Aziz, un giovane diciottenne partito dal Mali tre anni fa con l’intenzione di raggiungere la sorella in Germania, dove ha terminato la sua avventura.

 Chissà come potrebbe raccontare al ministro la sua copiosa pacchia ricevuta lungo il tragitto che lo conduceva dal suo villaggio incastonato tra l’Algeria, il Niger, il Burkina Faso, la Costa d’Avorio: dopo aver attraversato il deserto, giunto in Libia con la complicità di loschi trafficanti di uomini, venne detenuto in un campo di raccolta, assistette alla violenza, al meretricio, alla violazione dei fondamentali diritti dell’uomo.

Chissà se il nostro ministro degli interni, in prima fila per difendere il presepio nelle aule scolastiche e il crocifisso, segno di un Dio che si è fatto uomo, fratello e padre anche di Aziz, sa che questo uomo è rimasto in quelle condizioni per tre mesi per poi imbarcarsi su uno di quei tanti gommoni che vediamo alla televisione. L’imbarcazione stava per inabissarsi, quando fu soccorso e tratto in salvo.

Chissà se il nostro ministro degli interni è al corrente che Aziz, sbarcato in un porto, è stato accolto da uomini e donne, che lo hanno rifocillato, pulito, vestito come se fosse uno di noi, da un medico che si è chinato su di lui, da un agente di polizia che l’ha confortato mentre lo schedava e gli prendeva quelle impronte che sarebbero servite per ricostruire un brandello della sua vita.

Chissà se il nostro ministro degli interni è a conoscenza che Aziz, notte tempo, fuggì dal centro di accoglienza non per godersi la pacchia, ma per raggiungere la sorella che lo attendeva per abbracciarlo, per ricongiungersi a lui.

Chissà se il nostro ministro degli interni è informato che Aziz, senza documenti, sentendosi “nulla”, “nessuno”, paralizzato dalla paura, salendo su un treno e risalendo su un altro, giunse un giorno a Verona. Sapeva che da lì partivano i treni diretti in Germania, ma che a lui era proibito mescolarsi ai passeggeri perché era un “clandestino” e davanti a lui le frontiere si chiudevano. Sottraendosi alla vista dei ferrovieri, una notte scivolò sotto un vagone fermo su un binario e che sapeva diretto al Brennero, si legò agli ingranaggi della parte inferiore del convoglio, tra le ruote, e attese il mattino.

L’indomani il treno si mise in moto e Aziz aveva il cuore gonfio di speranza. Non temeva il freddo. Udiva il treno correre veloce e lo sferragliare del treno gli accelerava ancor di più il sogno di poter riabbracciare la sorella. Un bubbolio lontano, più fragoroso del frastuono delle ruote, gli fece capire che un temporale stava avvicinandosi. Attraverso uno sfiatatoio vide lampi violetti, mentre l’acqua cadeva rabbiosamente. Un lampo seguito da un rombo colpì ad un tratto l’apparato elettrico del treno e Aziz fu colpito in pieno dalla veemenza dell’energia elettrica che scaricò sul suo corpo tutta la sua potenza.

Il treno proseguì la sua corsa. Aziz fu scaraventato sulla massicciata. A scoprire il suo corpo in fiamme fu un samaritano dei nostri giorni. Lo vide, ascoltò il comando che era dentro di lui:” Che ne sarà di lui, se non mi fermo?”. Chiamò immediatamente i soccorsi. Aziz fu portato in un centro altamente specializzato, i medici constatarono che il 95% del suo corpo presentava ustioni di terzo grado. Avevano poca speranza, eppure adoperarono la volontà degli uomini forti e generosi: lavarono le ustioni, innestarono nuovi tessuti, cosparsero unguenti su un corpo lacerato. Grazie all’impronta digitale risalirono da dove era sbarcato, un mediatore culturale individuò il luogo di partenza e la sua identità. Rimase lì ricoverato dieci mesi: in quella stanza asettica compì 18 anni.

Questa è la pacchia che ha vissuto Aziz, signor ministro: è fuggito dalla miseria più nera, ha attraversato il deserto, è stato rinchiuso in un campo di detenzione libico, ha rischiato di affogare, è stato accolto in un nostro centro di accoglienza, ma il suo desiderio di raggiungere la sorella era più forte della paura! Non quella seminata in Italia dicendo che i migranti ci portano le malattie, ci rubano il lavoro (quello che gli italiani rifiutano!), importano il terrorismo, sono pericolosi per le nostre donne (ma su 10 stupri, 6 sono commessi da italiani!): questa paura nasce nelle viscere dall’odio che viene fomentato. Loro, i neri sporchi e brutti, fuggono in cerca della libertà, di quel dominio sulla morte che chi è prigioniero del suo livore non può comprendere.

Questo non è buonismo, non è un tatticismo politico, qui non c’è in gioco la vittoria delle elezioni, qui quello che conta è il rispetto della dignità dell’uomo, del sistema valoriale della nostra civiltà, la collocazione dell’Italia nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo.

È in gioco il bene che vogliamo all’Italia, che deve essere più grande dell’avversione che abbiamo gli uni per gli altri. È in gioco il rispetto della Costituzione, dei trattati internazionali, del diritto di navigazione, il valore irrinunciabile e caratterizzante della solidarietà che è principio basilare su cui si fonda l’Europa. È adempimento del monito evangelico: “Ero straniero e mi avete accolto”.

Aziz ha cercato rifugio nel nostro paese, ha bussato al nostro cuore: non era un nero, era un uomo. C’è stato chi non l’ha scacciato: gli hanno aperto le porte di un ospedale, l’hanno curato, l’hanno medicato, l’hanno nutrito con la stessa dedizione con cui trattano tutti i nostri malati. L’hanno guarito. Hanno restituito a tutti noi un fratello.

Ecco il mondo che sogno: dove non c’è l’odio, la calunnia, l’oltraggio, dove ogni uomo possa vivere allo scoperto, aver il sogno di raggiungere sua sorella. Nel mondo che la televisione mi porta in casa, la sera, vorrei non vedere immagini di sterminio, barconi che stanno per naufragare, frontiere che si chiudono e politici che usano parole che teorizzano la violenza della storia.

E in questo mondo vorrei un’Europa, ma quella mia, quella che ho presentato ai miei alunni, quella della solidarietà, quella che ho ereditato dalla lungimiranza di uomini che cercavano di unire, non di dividere. Questa Europa sta per scomparire per essere sostituita da quella della paura che alimenta e rende pericolosa la spinta verso la chiusura, la propria sovranità, il nazionalismo.

Vi sono situazioni critiche, è vero. Devono essere governate, non lo dobbiamo nascondere, ma fronteggiare non con acrimonia, ma con la coscienza che il nostro Paese ha prodotto, con l’umanesimo, l’universalismo. Gli antidoti alle barbarie esigono un’unità coesa, un’identità comune, una stessa comunità di destino, non certo con un linguaggio sprezzante, arrogante che è segno di mancanza di idee.

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