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Ambiente

PARTECIPAZIONE

ARTURO BORTOLUZZI - 06/07/2018

dibattitoÈ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il dpcm 76/2018 che sarà attivo dal 24 Agosto, che istituisce in Italia il dibattito pubblico per consentire la consultazione dei territori in fase di progettazione di un’opera. Questo (il dibattito pubblico) in attuazione del codice appalti, applicherà anche nel nostro paese il modello francese, basato sulla discussione preventiva delle scelte fatte sulle infrastrutture.

Nel decreto Allegato 1 sono inserite dodici categorie di infrastrutture per le quali la procedura è obbligatoria, tutte di grandi dimensioni: tra le altre, strade e autostrade con un valore di investimento superiore ai 500 milioni di euro, tronchi ferroviari più lunghi di 30 chilometri, opere aeroportuali sopra i 200 milioni, infrastrutture energetiche e insediamenti industriali con valore superiore a 300 milioni. Insomma, la nuova procedura riguarderà ogni anno poche infrastrutture di grande impatto a livello locale, puntando a sterilizzare prima i possibili contrasti futuri.

A essere sottoposti alla consultazione saranno i progetti di fattibilità: è il livello preliminare della progettazione pubblica che serve a individuare, tra le diverse alternative, quella con il miglior rapporto tra costi e benefici. La supervisione della procedura sarà di una commissione nazionale per il dibattito pubblico, che sarà organizzata da un decreto del ministero delle Infrastrutture: avrà il compito di monitorare «il corretto svolgimento» di tutto l’iter.

Ho scritto come presidente di Amici della terra Varese al nuovo presidente del Consiglio, affermando che questo lo intendo come un primo passo per poter responsabilizzare il corpo pagine Italia sociale che deve interessarsi delle decisioni degli enti pubblici.

Secondo l’autorevole storico Paul Ginsborg, come scrive Fabio Massimo Pellicano in “Istituti di democrazia diretta”, «la parte più importante della democrazia è appunto, quella che non c’è, ovvero una effettiva partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche». Una posizione condivisibile in astratto, ma da cui occorre distanziarsi per controbattere la tendenza, particolarmente evidente in Italia, a sottovalutare se non a svalutare tutto ciò che invece esiste effettivamente nella vita democratica delle società contemporanee. Una svalutazione che colpisce non solo l’azione delle amministrazioni pubbliche, ma anche la c.d. “cittadinanza attiva”, ovvero, gruppi, comitati, movimenti e associazioni che, al di fuori dei canali tradizionali della rappresentanza politica e al di là dei modelli di azione del paradigma corporativo, agiscono in tutto il mondo.

Una via da perseguire, pertanto, consisterebbe nel riconoscere maggiore rilevanza alle pratiche, già in atto nella società civile, della democrazia partecipativa, dando ad esse un ruolo pregnante nei procedimenti decisionali.

L’esperimento della democrazia partecipativa – invertendo la definizione di Ginsborg – è infatti una parte non trascurabile della “democrazia che c’è”. Nondimeno, la sua evidente natura di esperimento deve suggerire cautela nel considerarla come via univoca per la riforma della democrazia.

Se da una parte, a livello istituzionale si cerca di rafforzare l’accentramento dei poteri e delle decisioni in capo all’esecutivo; dall’altra, nella società civile, forme di partecipazione democratica, già frutto di procedimenti evolutivi, si incontrano e si affiancano ai percorsi partecipativi avviati dalle amministrazioni pubbliche. La valorizzazione delle espressioni della cittadinanza attiva, quindi, può concorrere allo sviluppo di questa riforma. Nel nuovo equilibrio istituzionale, ridisegnato dal Parlamento è indispensabile incrementare il coinvolgimento degli abitanti nelle scelte pubbliche a livello delle realtà locali, sia per sostenere i continui tagli agli investimenti pubblici (specie nei settori di intervento più sensibili), sia per ricostruire la fiducia dei cittadini nella politica, assicurandole maggior sostengo davanti alla latente crisi di legittimazione che l’ha attraversa da un trentennio. Come, del resto, coinvolgere i cittadini nella discussione delle scelte, è quasi una necessità conseguente alla crisi del pensiero e della razionalità unica.

In questo quadro, allora, anche la “sussidiarietà circolare”, intesa come collaborazione permanente tra Stato e Società, svolge un ruolo determinante se interpretata come reale ribaltamento del principio di sussidiarietà verticale.

Un ribaltamento che parta dal livello locale per creare una maggiore ed effettiva co-responsabilizzazione tra livelli diversi di istituzioni territoriali e i cittadini nelle loro molteplici espressioni organizzative. Queste ultime non andrebbero intese solo come spazi di difesa dei diritti del cittadino, ma valorizzate per le loro capacità di costituirsi quali promotrici di progetti territoriali e di politiche pubbliche creative, sostenibili e mirate a tutelare interessi generali. In definitiva, attraverso nuovi strumenti di valorizzazione della “cittadinanza attiva”, sul modello degli strumenti di partecipazione esistenti in Europa, si potrebbe garantire pari dignità alle autonome iniziative dei soggetti coinvolti, privati e pubblici.

In tal senso, un arricchimento interpretativo del principio di sussidiarietà potrà discendere solo da concrete sperimentazioni di misure, strumenti e politiche centrate sulla valorizzazione delle autonome capacità di progettazione degli abitanti da parte di istituzioni che intendono investire su di esse. In tale ottica, il ruolo degli enti territoriali a contatto più diretto con gli abitanti è sempre più “strategico”, anche perché può stimolare dibattiti su questioni urgenti ad altri livelli istituzionali, ricorrendo anche a misure “provocatorie” di sperimentazione.

Questo dovrebbe essere capito dalla giunta comunale di Varese che deve aprirsi al terzo settore, già in fase progettuale e rispondendo alle lettere che le vengono inviate. Bisogna così superare le resistenze imposte dalla burocrazia. Il nuovo governo deve essere capace di trasformare una metodica ora riservata solo ad opere di una grandissima rilevanza a opere della pubblica amministrazione di valore molto inferiore. Non si dica che ascoltare gli interessati comporta una perdita di tempo nel realizzare le opere. Basterebbe obbligare ogni palazzo a prevedere una consultazione degli interessati in un termine definito oltre il quale non è più ammissibile fornire pareri. A questo punto la pubblica istituzione potrà decidere come meglio crede scrivendo nella deliberazione che assume una propria motivazione sul le modalità in cui intende valutare le proposte ricevute. Questo che scrivo potrebbe essere un primo obbligo che nessuna amministrazione locale vuole porre in essere, pensando di poter ricevere pareri da un numero eccessivo di cittadini che hanno intenzione non di risolvere il problema, ma solo di fare ostruzione. Così non è, e questa non può essere, la scusa per non fare niente.

Mi chiedo se il nuovo esecutivo vorrà affrontare la situazione in una maniera risolutiva e con volontà di scardinare le metodiche attualmente utilizzate dagli uffici dei palazzi istituzionali che non hanno come compito primario (mentre dovrebbero averlo) quello di risolvere i problemi di tutto il corpo sociale. Tornando al decreto ora appena pubblicato, anche se manca ancora qualche piccolo passaggio attuativo si applicherà solo alle opere di grandissima rilevanza.

La prima criticità è proprio questa, che è anche la prima correzione suggerita, riguarda la scarsa applicabilità dell’istituto del ‘débat public‘ determinata da soglie di importi giudicate troppo elevate.

Lo schema adottato da Palazzo Chigi (su proposta dei ministeri coinvolti) impone il dibattito pubblico per infrastrutture a rete da almeno 500 milioni di euro e per infrastrutture puntuali da almeno 300 milioni di euro (anche se prevista la possibilità di svolgere il dibattito su opere per una soglia di importo ridotto di un terzo rispetto a questi importi).

Già l’organo di consulenza giuridico-amministrativa del governo ha dichiarato che tali soglie economiche “sono di importo così elevato da finire per rendere, nella pratica, minimale il ricorso a tale istituto, che rappresenta invece una delle novità di maggior rilievo del nuovo Codice dei contratti e che, se bene utilizzato, potrebbe costituire anche un valido strumento deflattivo del contenzioso“.

Ho suggerito quindi “di intervenire modificando il livello delle soglie dimensionali indicate, per le diverse tipologie di opere, nell’Allegato 1.

La seconda criticità riguarda la necessità di potenziare l’attività di monitoraggio della Commissione nazionale per il dibattito pubblico.

Si ritiene che “per l’effettivo successo del nuovo istituto del dibattito pubblico, un ruolo determinante è svolto dalla ‘Commissione nazionale per il dibattito pubblico, istituita dal primo Correttivo al Codice dei contratti pubblici” e, “proprio in considerazione dell’importante ruolo alla stessa assegnato” si rileva la “necessità di potenziare l’attività di monitoraggio successivo ad essa demandato dalla legge, prevista dall’articolo 4, comma 6, lettera e), del decreto ma in modo poco incisivo“.

Suggerisco nella lettera che ho inviato poi di: includere nel perimetro di applicazione non solo i beni del patrimonio culturale e naturale tutelati dall’Unesco ma anche i «beni culturali e del paesaggio tutelati dal d.lgs 22 gennaio 2004, n. 42» (articolo 3); di  prevedere un numero di componenti sempre dispari all’interno della commissione nazionale per il dibattito pubblico anche quando vi sono inserimenti da parte del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, «per evitare situazioni di stallo nei casi in cui una decisione debba essere presa a maggioranza» (articolo 4).

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