Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Cultura

FIUTO DA IMPRENDITORE

SERGIO REDAELLI - 20/07/2018

Una lettera dall’epistolario del fondo Foscarini

Una lettera dall’epistolario del fondo Foscarini

Dalla nascita nel ghetto di Venezia al successo (e alla ricchezza) come imprenditore agricolo e speculatore fondiario a Varese. E’ la storia di Giacomo Maria Foscarini, alias Jacob di Simon Motta di origine ebraica, nato nel 1759 nella città dei dogi e tenuto a battesimo dal nobile Giacomo Foscarini ai Carmini che, secondo un’antica usanza, gli diede il proprio nome. Esercitava, come il padre, la professione di negoziante e simpatizzava per Napoleone. Nel 1784 si convertì con la moglie Allegra Jesurum (che prese il nome di Camilla) e dopo la cessione di Venezia all’Austria nel 1797 fuggì a Varese, dove si arricchì acquistando dal demanio a prezzi stracciati terreni di provenienza ecclesiastica fatti requisire dal Bonaparte.

Giacomo Maria Foscarini è il protagonista dell’articolo che Claudia Morando, già direttrice dell’Archivio di Stato di Varese, prolifica autrice di libri, studi e approfondimenti di storia varesina per le riviste specializzate, ha pubblicato ai primi di luglio nel sito www.ilmondodegliarchivi.org. “In quel periodo – scrive – lasciarono Venezia altri personaggi legati alle idee della Rivoluzione francese tra cui Vincenzo Dandolo, che si trasferì a Varese proprio su invito del Foscarini e nella cui abitazione si riunivano gli esuli veneti che costituirono una sorta di colonia”. Qui Vincenzo e Giacomo si scoprirono abili uomini d’affari, entrambi di origine ebraica, agronomi, amici per la pelle e spregiudicati speculatori.

Del primo, celeberrimo, si sa tutto o quasi, il matrimonio con Marianna, la sorella di Luigi Grossi che scrisse la “Cronaca di Varese” con Giovanni Antonio Adamollo, gli acquisti a prezzo di saldo (13 mila lire) del soppresso convento dell’Annunziata dei frati minori riformati (la sola biblioteca era valutata 30 mila), dell’ex monastero delle benedettine umiliate di S. Martino, dell’eremo e di 1690 pertiche di terreno dei carmelitani scalzi al Deserto di Cuasso. E, ancora, gli investimenti a Malnate, Varano e Varese, le benemerenze scientifiche, gli studi, i libri e gli esperimenti sull’allevamento delle pecore, la manifattura della seta, la zootecnia, la produzione di vini e olii pregiati, l’impianto di vivai e semenzai, l’apicultura e la produzione di miele, lo sviluppo delle industrie agrarie, di canapifici e linifici. Tanto da meritarsi una targa nel lapidario di Palazzo Estense.

Di Foscarini invece, carattere chiuso e meno “esibizionista” del conte Dandolo, si sa meno. Profittando delle requisizioni napoleoniche acquistò l’oratorio di S. Silvestro a Cartabbia, fondi e case a Biumo Superiore, Capolago, Bizzozero, Schiranna, Brinzio, Schianno e consistenti proprietà al Sacro Monte, in precedenza intestate alle monache di S. Maria. La Morando, al termine di lunghe ricerche condotte in vari archivi di Venezia, Milano e Como, ha pubblicato vari contributi tra cui un’indagine sulla Rivista della Società Storica Varesina 2017: “Si dedicò principalmente alla coltura della vite e alla bachicoltura – scrive – l’attività più redditizia era la produzione della seta che comportava la coltivazione dei gelsi, la cui foglia era il cibo necessario per il mantenimento dei bachi”.

Altri elementi, la ricercatrice ha attinto dall’epistolario del Fondo Foscarini conservato nell’Archivio di Stato di Varese, lettere che l’agente di campagna Vincenzo Fiorio e il successore Giovanni Battista Mauri inviarono al proprietario dal 1788 al 1836. Le produzioni economicamente più rilevanti erano la seta e il vino. Le sue tenute privilegiavano i gelsi rispetto al mais e al frumento. Nelle lettere si parla spesso dei vivai di moroni e dei trapianti delle pianticelle delle cui foglie si cibavano i bachi da seta. L’allevamento avveniva in stanze riscaldate, a temperatura tenuta sotto costante controllo con i termometri. I bozzoli erano consegnati alle filande per la tessitura.

La coltivazione della vite aveva luogo nei ronchi e tra un filare e l’altro si seminava il mais. L’azienda produceva vino di diverse qualità per soddisfare le esigenze del mercato, la maggior parte da consumare entro l’anno di produzione, il resto destinato agli osti o da esportare. Dalle vinacce si ricavava l’acquavite e dai vini non più bevibili l’aceto. I massari abitavano le terre con le famiglie e per il lavoro nei campi usavano i buoi che fornivano il concime. Altre produzioni: il fieno, il legname, le patate e vari tipi di frutta, pesche, prugne, ciliegie, fichi e castagne.

Dopo alcuni anni a Varese Foscarini si trasferì a Milano continuando a occuparsi delle proprietà attraverso l’agente Fiorio, cui forniva per lettera le istruzioni sulla conduzione dei beni e sulle tecniche di coltivazione. Durante il periodo napoleonico accettò di ricoprire cariche pubbliche. Fu consigliere, revisore dei conti, savio, sostituto del podestà di Varese e sovvenzionò la comunità durante il passaggio delle truppe imperiali nel 1799. Con la Restaurazione austriaca, preferì dedicarsi alla gestione delle proprie terre e agli studi sui bachi da seta. Morì a Milano nel 1833, tumulato a Cartabbia nella cappella fatta erigere dal figlio in ricordo dei genitori.

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login