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Società

CHICCHIÒ

VINCENZO CIARAFFA - 27/07/2018

Quando l’ultima dei miei figli ci annunziò di essere in dolce attesa, condivisi soltanto parzialmente la corale gioia della faminipoteglia perché, all’improvviso, mi sentii più vecchio dei miei 54 anni. L’euforia generale che seguì contribuì a sospingermi ancora di più nella dimensione che si era rivelata ai miei occhi nell’istante in cui avevo realizzato che, per legge di natura, ero virtualmente nonno. Sarei divenuto, dunque, uno di quei vecchietti intristiti che, con affanno, tengono dietro ai nipotini nei giardini pubblici? E non ebbero il potere di modificare quel disagio neppure le allegre baruffe sulla scelta del nome per il nascituro.

Col passare dei giorni, però, il pensiero che il prossimo ad arrivare in famiglia potesse essere un maschietto prese a vellicare le mie striscianti pulsioni di inveterato maschilista che, peraltro, si riteneva iniziatore e “vittima” di una famiglia composta da troppe femmine. La speranza che il prossimo ad arrivare potesse essere un bimbo mi prese più di quanto fosse saggio lasciarsi prendere, tant’è che incominciai a far progetti sul “macho” che mi avrebbe aiutato a scardinare la ginecocrazia familiare. Mi sorpresi perfino a sorridere da solo mentre pensavo alle licenze pedagogiche che mi sarei potuto prendere col nipotino, che già vedevo intento a decretare la fine delle orride statuine che mia moglie aveva destinato alla scrivania, al posto delle mie pipe.

I propositi di scompaginare, in qualche modo, il predominio muliebre in famiglia durarono appena tre mesi, al termine dei quali mia figlia ed il marito, sempre più elettrizzati, si presentarono a casa con una strana foto, l’ecografia, dalla quale, secondo loro, si capiva che era in arrivo una bambina. Un’altra femmina! Per quanto cercassi di non darlo a vedere, ero piuttosto deluso e, nondimeno, mi sforzai non poco di assecondare l’autorevolezza con la quale mia figlia mi indicava un punto della foto dove, secondo lei, si intravedeva la “patatina”: in realtà, vedevo solo macchie bianche e nere.

La delusione lasciò il posto ad altri sentimenti man mano che passavano i mesi e cresceva il pancione, perché la mia terzogenita, oltre a diventare sempre più rotonda, si faceva ogni giorno più bella, più dolce, consapevole di essere vita per la vita che portava in grembo: molte volte fui sul punto di attrarla al mio cuore, come facevo quando era piccolina, ed altrettante volte, per pudore, vi rinunciai.

Era d’estate, la notte tra il 12 ed il 13 agosto del 2004, e nonostante le zanzare e la calura, ero riuscito finalmente a prendere sonno quando, a metà strada del Nirvana, squillò il telefono. Alzai il ricevitore piuttosto di malumore, malumore che fece presto a tramutarsi in marasma funzionale. Era mio genero che, in semi – apnea, annunciava l’imminente arrivo di Noemi. Dopo avere dato la sveglia generale ed essere andato, senza motivo, avanti e indietro, finii per completare la vestizione sulle scale di casa, mentre mi dirigevo verso il garage inseguito da tutta la famiglia. Nella circostanza uno dei miei figli si offrì di guidare perché secondo lui, che è miope come una talpa, «…al buio vedo meglio di te…». In verità quella notte neppure io mi sarei fidato della mia guida. Come Dio volle, durante il tragitto casa – ospedale, riuscii a riprendere una parvenza di self-control.

All’approssimarsi dell’alba, quando mia figlia venne trasferita in sala parto, ebbi la sensazione che fosse entrata nell’antro di chissà quale mostro, nonostante le rassicurazioni fornite dal personale medico. I miei occhi inquieti interrogavano continuamente quelli di mia moglie la quale, alla fine, per porre termine alla mia composta agitazione, mi prese la mano e disse una cosa che fino a quel momento non avevo messo veramente in conto: «Guarda che noi donne diventiamo madri da migliaia di anni…». Questo stava per diventare la mia bambina, una mamma! Mentre rimuginavo quello ed altri pensieri, fece la comparsa mio genero il quale si fiondò verso il nido, recando tra le braccia un fagottino che lasciava intravedere a malapena due grandi occhi neri, quelli di Noemi. A quel punto la frenesia si impadronì di mia moglie, dei miei figli e dei sopraggiunti consuoceri i quali, squittendo, seguirono la scia di mio genero, mentre io ne approfittai per uscire in giardino a fumare una sigaretta.

Non saprei dire se per perfidia o per affetto, mi venne di telefonare a mia suocera giù in Meridione, per comunicarle che era diventata bisnonna. Alla fine anche io mi incamminai verso il nido da dove potei osservare, finalmente da vicino, quel fagottino vestito di rosa. Al contrario di tutti i presenti che se ne stavano con il naso schiacciato sulla vetrata della nursery, cercai di mantenere un atteggiamento compassato nel mentre mi domandavo dove avessi già visto gli occhioni neri di Noemi. In realtà li vedevo ogni mattina: nello specchio mentre mi radevo.

Quella constatazione mi trapassò con sensazioni che stentavo a catalogare perché, alla presa d’atto che per me nulla sarebbe stato più come prima, seguì la confusa percezione di non essere passato invano su questa terra, dove avrei lasciato impronta del mio passaggio, perché quell’esserino, un giorno, avrebbe generato altri esserini, tesi a perpetuare anche qualcosa di me. Il colpo di grazia al mio ricercato apparire “nonno tutto di un pezzo” fu dato dall’esclamazione proveniente dal capannello di fratelli, sorelle, cognati e zii che nel frattempo si era formato d’avanti alla vetrata, esclamazione che mandò a farsi benedire la ricercata compostezza e la presunta razionalità: «È tutto suo nonno!».

Non passò molto tempo da quel giorno, infatti, che il “nonno tutto di un pezzo”, il maschilista frustrato, si ritrovò a dar di biberon, ad andare in giro con la carrozzina, a fare boccacce alla Jerry Lewis e, perfino, a portare al collo una bambina stretta ad un pitale a forma di gatto dal quale, avendolo scambiato per un giocattolo, non voleva assolutamente separarsi. Mi animava una nuova energia grazie a Noemi, la quale cresceva bene e con le idee piuttosto chiare, nonostante avesse all’epoca soltanto tre anni. Conosceva già i rudimenti della lingua inglese appresi presso una scuola materna internazionale dove, svenandosi, i genitori l’avevano iscritta perché volevano che venisse su bilingue e con una dizione perfetta.

Era ancora d’estate, un pomeriggio d’agosto del 2007, quando nel corso di uno dei nostri “litigi” per il possesso del telecomando, Noemi mi apostrofò con un irritato «Chicchiò!». Per quanto – ancora oggi! – la consorte e la mia ineffabile figliola (la madre dell’inglesina …) sostengano il contrario, quel termine era la versione noemiana dell’appellativo con il quale, con molta mala grazia, ero solito cacciare dalla mia poltrona Tris, l’illibato cagnetto di casa: «Vattenne, ricchiò…».

Penso sia superflua la traduzione. Buone vacanze.

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