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Apologie Paradossali

ABBASSO LA SCUOLA (O NO?)

COSTANTE PORTATADINO - 14/09/2018

scuola(C) Nella settimana dell’apertura delle scuole, parlare di scuola è quasi un obbligo. Anche i media si sono accorti dell’impressionante fenomeno dell’abbandono, a livelli delle superiori e dell’università. Oggi voglio proprio fare il difensore, anche all’estremo del paradosso, ma proprio per questo vi chiedo di cominciare con le critiche.

(S) Troppo facile, ce ne sono migliaia. Il difficile è sintetizzarle in breve. Per non rubare troppo spazio le riduco a una: la scuola è troppo distante dalla società, intesa come stile di vita, come lavoro, come linguaggio. Insomma, a tanti sembra che non serva a nulla.

(O) Potrei condividere la tua conclusione, sembra proprio che non serva a nulla, ma secondo me per la ragione opposta: è troppo condizionata dalla società: nel rapporto maestro-allievo si riversano i criteri, le visioni del mondo i valori e i disvalori che dominano la società, senza più un filtro, senza un’ispirazione alta, qualcosa che giustifichi al giovane e alla sua famiglia il sacrificio che comporta un tempo di preparazione sempre più lungo e sempre meno remunerato, sia economicamente, sia come soddisfazione morale.

(C) Apparentemente mi mettete in bel guaio, non mi va di prendere posizione pro o contro uno di voi. In realtà i vostri giudizi sono più consonanti di quanto appaiano: infatti non danno la colpa alla mancanza di mezzi, di aule, di computer, di insegnanti, alla vetustà dei programmi, all’alternanza scuola-lavoro, all’esame di maturità, alle prove Invalsi … e chi più ne ha più ne metta. La debolezza della scuola italiana, ma credo di tutto il mondo sviluppato, se prestiamo fede allo studio che ci ha presentato mesi fa il prof. Bellamy, sta nel non riconoscersi in un orizzonte di valori sufficientemente autorevole da essere accolto dagli allievi e dalle famiglie. Richiede troppo: fatica, denaro e tempo, in una parola richiede sacrificio ai ragazzi e alle famiglie. Troppo per quel che restituisce in termini di promozione sociale ed economica.

Formulo un’ipotesi, non so se avvalorata dalla statistica: la metà dei soggetti, famiglie e figli/e, si pongono obiettivi proporzionati alle proprie capacità e, con un poco di sforzo, li raggiungono, non importa se sarà un diploma professionale, una laurea o un dottorato di ricerca. Bene, non ce ne occupiamo, per ora. So bene che non significa automaticamente il raggiungimento di un risultato sociale soddisfacente. Per l’ altra metà, la fatica diventa più importante. Voglio immaginare che la metà della metà rimanente tenga duro, che la famiglia faccia sacrifici economici, che il/la giovane riesca a metterci, prima o poi, quel minimo d’impegno necessario, che tra una bocciatura, un cambio di indirizzo, un costoso passaggio di qualche anno in un ‘diplomificio’, il risultato del pezzo di carta sia raggiunto: le vostre critiche rimarrebbero in piedi. Che dire del restante venticinque per cento, quello che non raggiunge nemmeno questo straccio di risultato: l’investimento in denaro dello Stato e della famiglia e quello morale degli alunni non sono per nulla ripagati. Adesso che cosa offriamo loro?

(S) Non certo il reddito di cittadinanza! Ma lo sapete quanti posti di lavoro, certo di lavoro che è lavoro, mica bloggisti, comunicazione, eventi, wedding planners, eccetera, restano scoperti? Ci sarà anche una resistenza da parte dei giovani e delle famiglie, ma mancano anche i percorsi formativi per tutte quelle professioni, citiamo per esempio il classico idraulico, che una volta si imparavano a ‘a bottega’ e che oggi abbisognano comunque di un percorso formativo serio, che non esiste.

(O) Non mi sogno di negare quel che afferma Conformi. Tutto vero, ma, aggiungo, forse quello che manca del tutto è la motivazione. Non riescono a darla i genitori, già turbati dal rischio concreto di veder svanire le proprie certezze di carriera e di sicurezza sociale; i figli non se la danno da soli, immersi come sono in un universo di distrazioni e di promesse internettische. Non la danno la politica, la società, la cultura: dovrebbe darla la scuola, ma per farlo la mentalità dei suoi operatori dovrebbe essere sorretta da convinzioni personali forti. Scusate se porto come esempio quello di un mio parente, che ha insegnato per anni computisteria all’avviamento commerciale e poi ragioneria alle superiori: per certo ha insegnato un mestiere, ma anche un modo di lavorare e una passione per il lavoro fatto bene: lo ha fatto anche attraverso un rapporto esigente con i suoi alunni. Non ha solo insegnato una materia, ha educato le persone. Siamo sicuri che un tipo così oggi non finirebbe minacciato o peggio dagli alunni o perfino dai genitori?

(C) Siamo arrivati al punto. La trasmissione del sapere e più ancora quella dei valori, quelle che un tempo si chiamavano virtù e arti, non avviene senza un coinvolgimento vitale tra maestri e allievi, senza che si crei una analogia tra scuola e vita reale, una specie di comune appartenenza a un progetto o a una speranza o a una coscienza più grande della apparente meschinità del presente, della noia del vivere e del dovere quotidiano. Quando insegnavo, anni fa, pur nella mia inesperienza, ho sempre cercato di attrarre gli studenti alla bellezza delle mie materie, piuttosto che spingerli con la minaccia di un dovere da compiere. Temo che oggi si rinunci troppo facilmente a trasmettere ambedue le motivazioni.

(O) Quindi non riversiamo tutte le colpe sulla scuola come istituzione e non pensiamo, mi permetto di dirlo al nuovo Ministro, che la cosa da fare sia demolire il tentativo del predecessore. L’hanno già fatto tutti i predecessori dei predecessori, risultato zero. Si dice che occorre ricostruire l’alleanza tra la scuola e la famiglia: giustissimo, ma non basta, i soggetti che devono mettersi in gioco sono molti di più e soprattutto devono agire in prima persona proprio tutti, ogni singolo genitore o ogni singolo insegnante, ogni operatore economico o sociale che cerchi, senza trovarla, una determinata figura professionale. Una scuola al passo con i tempi non è quella che usa oppure vieta il telefonino in classe, che ha la lavagna luminosa al posto di quella d’ardesia col gesso; è invece quella che pone le domande giuste a tutte le su componenti, famiglie comprese, e aiuta a trovare le risposte, che trasmette i saperi e forma le abilità necessarie, ma soprattutto che educa, integrando in ciò il compito primario della famiglia, che da sola non potrebbe rispondere adeguatamente alla molteplicità di suggestioni che arrivano dalla società, cioè dalla vita reale. Per educare, quindi, il rapporto con la vita reale deve essere continuo, concreto e tuttavia autorevole. In altre parole: non deve appiattire la persona sulla realtà fattuale, ma aiutarla a riconoscerne senso e valore, portandola ogni volta ad un livello più alto.

(C) È già così! Oppure non sarebbe scuola. Non voglio dimenticare le mille carenze materiali e organizzative che tutti conosciamo, ma sono sicuro che la maggior parte degli insegnanti è motivata dal desiderio di educare in questo modo, anche se spesso non trova condizioni materiali facilitanti. Il mio compito di apologista è assolto: fare una scuola che educa è ancora possibile, anzi è sempre più urgente, lo avete testimoniato proprio voi critici. Allora W la scuola, abbasso i suoi detrattori e auguri a tutti i protagonisti, studenti e insegnanti.

(C) Costante (S) Sebastiano Conformi (O) Onirio Desti

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