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Opinioni

DALLA SOCIETÀ ALLA POLITICA

VALERIO CRUGNOLA - 19/10/2018

civismoSe vuole davvero far bene, la politica deve individuare criticità più che vantare meriti. Nell’Italia degli anni ‘10 le liste civiche hanno vissuto una promettente stagione. Non sempre i successi nelle urne hanno corrisposto alle attese politiche e amministrative. Talora le potenzialità sono andate dissipate. Il ricorso a modelli tipologici può aiutare a capire perché.

Distinguiamo i fenomeni civici in «aggregati» e «movimenti», ambedue divisi in tre sottocategorie: complementari, surrogatori o autonomi rispetto ai partiti. I primi sono originati da moventi eterogenei. L’obiettivo elettorale li condanna a vita breve. Se sono troppo eterogenei, se gli scopi sono raggiunti o si rivelano irraggiungibili, la dissoluzione è rapida.

Gli aggregati soccorrono chi crede che un più alto numero di liste e di candidati allarghi i consensi. Vi cercano riparo i membri di establishment non più presentabili sotto logore insegne partitiche, politici in declino che vogliono «provarci» ancora una volta o outsiders che intraprendono la professione di politici aggirando le regole delle cordate e dei cursus honorum. Vi ricorre chi vuole intercettare porzioni di elettorato altrimenti non raggiungibili o non componibili, o tenere in vita catene di rappresentanza sociale, culturale o clientelare un tempo strutturate e stabili ma ormai consunte. Una lista cela un nucleo politico troppo debole per esordire in proprio; un’altra consorzia degli attrattori di voti che vogliono accrescere il potere negoziale e contrattuale in vista della distribuzione delle cariche e che spesso competono tra loro per ottenerle. Una attiva un bacino di energie che «danno una mano» a chi desidera «contare»; un’altra è potestà di singoli che per fama o aura carismatica rivendicano a sé un ruolo pubblico ma necessitano di gregari, non potendo «correre da soli». Nella loro varietà gli aggregati civici sono accomunati da un possibile destino di devitalizzazione (lo stesso che corrode gli attori partitici). In quel caso la propulsione originaria si converte in un’autoreferenzialità che non risponde più alle istanze di partenza, che non trova più energie e motivazioni e vive di rendita sui propri trascorsi. A propria volta la rappresentatività esterna diventa volatile, mentre quella interna si depotenzia, si burocratizza, si regge su fedeltà personali e si riduce a un fragile scheletro che ha perso per strada, con i tessuti connettivi, ogni fluidità dialettica e ogni capacità di elaborazione e riflessione politica. In ultimo l’aggregato sopravvive e si perpetua solo se resta sempre sotto i riflettori.

Dal canto loro i «movimenti civici» nascono da una confluenza plurale di intenti e su obiettivi di scopo, e hanno alle spalle non già delle personalità ma un’azione civile sufficientemente radicata nel territorio, un ruolo riconosciuto, un corpo stabile di aderenti e una capacità interna di coesistere e di cooperare. Questi movimenti possono via via allargarsi ad altri obiettivi da loro suscitati o già sussistenti nel territorio, e dispongono di un’originaria impronta «appassionata», di un colore e calore emotivi. Con la loro fluidità ospitale al riparo da gerarchi, sono in grado di modificare le percezioni pubbliche dei problemi e di intercettare, rielaborare e orientare i sentimenti profondi di una o più aree sociali e territoriali: la stanchezza e la delusione per le vecchie rappresentanze; il bisogno di novità e discontinuità con il passato; la volontà di cercare vie d’uscita, perché ormai «come andava prima non va più».

Ma anche i «movimenti» non sono affatto immuni dai rischi di deriva che gravano sugli «aggregati». Se anzi il loro ruolo non si esaurisce emergono ulteriori nodi irrisolti: tra questi, la difficoltà di preservare e rinnovare i collanti originari, e il conflitto tra la cooperazione tra pari e le modalità di esercizio fattuale della direzione politica. Se le azioni di contrasto che li caratterizzano hanno ricadute programmatiche mal ragionate, velleitarie e vaghe, si riducono a una sommatoria di piccole class action. I movimenti civici non reggono né leadership né potestà (né comunque basterebbe ricevere tale unzione per saperlo essere); l’assottigliarsi del nucleo attivo se non riesce a distribuire i ruoli in modo articolato nella fase di istituzionalizzazione del movimento; e la ridondanza degli intenti, enunciati spesso frettolosamente, e la concretezza delle strategie e delle pratiche amministrative. Soprattutto, la difficoltà di coesistere può compromettersi sia tra i membri del movimento che con la coalizione.

Tutti i movimenti civici a fatica escono indenni da questa trasformazione. Se non trovano la direzione giusta, se viene a mancare un processo di apprendimento cognitivo e comportamentale, se il confronto si prosciuga, emergono o decisori isolati o un Principe circondato da «consiglieri» e comprimari. In tal caso il «movimento» diviene un’appendice, un corredo. La sfiducia e le passioni fredde subentrano al calore dei primi momenti. Il rarefarsi della discorsività scoraggia l’elaborazione dei dissensi e i vitali apporti critici. Molti finiscono per allontanarsi o vengono allontanati. Il movimento ristagna e si affloscia. Nessun tentativo di rianimazione lo rilancia. Se poi a questo processo entropico si sommano tensioni nei rapporti con i sodali esterni, se non si riesce a lavorare insieme, il circolo vizioso imprigiona tutti e il rischio si estende.

Presi come un tutto, i «civismi» nascono locali, puntuali e personali; ma implodono se degenerano in localismi, vaghi enunciati e personalismi. Il passato conferisce medagliette al valore ma i titoli si conquistano nel presente. Efficaci su obiettivi ristretti, se le convergenze di scopo allargano troppo i loro fini, rischiano di smarrirsi e attorcigliarsi su se stesse. Se viceversa non trovano delle bussole operose svaporano in consorterie di piccolo cabotaggio.
Resta un mito da sfatare: l’idea che nel civismo confluiscano competenze professionali, amministrative o manageriali, una sorta di lobby disinteressata e di élites generose. Le competenze utili sono politiche e riguardano la capacità di rendere omogenea quanto basta la condivisione di energie, di spinte partecipative, di intenti e di risorse cognitive e trasformarla in un capitale umano. La «competenza» non è un possesso da ri- versare ma un processo di apprendimento al lavoro comune in regime di parità e un continuo cercare sintesi non scontate. La fatica preliminare dell’attento studio dei problemi si associa al vaglio dell’esperienza. Il valore aggiunto è il percorso. Il passaggio dalla critica che unisce profili sociali, intellettuali e professionali di- versi all’effettivo impegno amministrativo è impervio, specie per chi governa o per chi intende l’opposizione in senso costruttivo e non come estenuante susseguirsi di spettacoli della Pinty Fireworks Show.

Si è competenti se si sa erogare lavoro, studio, energie e affinare l’agire, le prassi e la riflessività in vista di obiettivi. Le «competenze» non sono prerogativa di una formazione politica piuttosto che di un’altra. I «civici» non hanno il monopolio dei saperi e dei buoni intenti mentre i «partitici» pensano ad altro. Civici o partitici, i politici devono riconoscere, con i loro limiti, la continua necessità di imparare. I risultati sono ancor più deludenti se alle complicazioni del lavoro in comune si aggiungono le resistenze degli apparati e della burocrazia che maneggia normative, procedure e prassi consolidate che si ripetono.

La qualità dei promotori delle attività civiche è rilevante nel determinarne i destini. Con i loro successi alcune forze hanno oltrepassato l’obiettivo elettorale e politico immediato. È il caso degli «arancioni», i movimenti milanesi che si raccolsero attorno a Giuliano Pisapia nel 2011. Fu la loro carica innovativa a porre le condizioni della vittoria di misura su Boeri alle primarie e poi della larga vittoria sulla Bricchetto nelle urne e a tradurre in modo efficace gli intenti generali di una coalizione in sé composita (dal centrismo liberale ri- formatore ad alcune forze a sinistra del PD) in un programma di governo cittadino e metropolitano meditato, fattibile e fecondo. Pisapia seppe interpretare con pacatezza, capacità dialogica e saggezza politica uno spiri- to di cooperazione e di convergenza non solo entro la coalizione, ma altresì nei sensori partecipativi e nei processi cognitivi circa i problemi dei cittadini e le azioni conseguenti di governo. Ma neppure all’apogeo della sua amministrazione Pisapia ha potuto preservare il movimento degli «arancioni». La spinta iniziale è defluita nella prosaicità della politica: il movimento si è trasformato in un piccolo corpo di supporters senza più slancio. Quando sono emerse le difficoltà nel rapporto tra le forze della coalizione e le lotte intestine nel PD, Pisapia non ha potuto più far leva su quel corpo civico che aveva saputo interpretare, rappresentare e mobilitare. Il caso milanese, benché così fecondo, non ha potuto riproporre la coalizione tra movimenti e par- titi, meno che mai con i medesimi attori. Del vecchio modulo di gioco un solo schema ha resistito: l’ingresso in scena di un candidato né partitico né propriamente civico, Giuseppe Sala, un city manager già testato con successo da Expo.

Chiudo con due conclusioni problematiche. La prima: il logo si consuma, ma dei nominati e degli eletti restano. Perché vi siano risultati rimarchevoli servono intraprendenza, attività di consolidamento, input e stimoli capaci di suscitare processi generativi e rigenerativi oltre gli steccati iniziali. Due domande sono d’obbligo. Come valorizzare le risorse incorporate negli eletti? E come ricucire nuovi canali di espressione dell’opinione pubblica a partire da «quel che c’è»? Problemi complessi, ma affrontabili con scelte tempestive e più vigorosi impegni realizzativi e di coordinamento.

La seconda: il potenziale vantaggio comparato dei movimenti civici rispetto ai partiti è che sono più liberi di prefigurare un futuro non a breve termine, pena l’omologarsi a un qualsiasi ceto politico (incluse le forze al momento al potere a livello centrale) che dovendo riconfermarsi con il voto si degradano a una triviale immediatezza. Sulla carta i primi, più informali, legittimano in modo più lineare strategie e rappresentanze. Come sfruttare bene questi vantaggi? La politica civica è a ben guardare più delicata, esposta e fragile di quella praticata dai partiti. È difficile stabilire in astratto se possa essere un’alternativa congrua e conveniente: anche perché spesso partiti e forze civiche si rafforzano ma ancor più spesso si indeboliscono insieme. Non è detto che il modulo a due gambe funzioni meglio delle classiche coalizioni di partito, né che la lique- fazione di alcuni partiti (il PD dopo lo tsunami di Renzi, FI dopo il tramonto di Berlusconi) possa essere sur- rogata da reti civiche sostitutive. Ne è conferma, in un quadro volatile comparabile a quello odierno, proprio il fallimento della remota esperienza della Rete a partire dal 1994. Anche la rapida metamorfosi oligarchica dei meetup pentastellati può insegnarci qualcosa. Riflettere è d’obbligo, E urgente, se non si vuole precipitare nei tombali abissi del grilloleghismo.

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