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Cara Varese

GIUDICANTI E GIUDICATI

PIERFAUSTO VEDANI - 02/11/2018

magistraturaLa riservatezza dei magistrati è tradizionale: già rigorosa nella attività professionale, se possibile lo è ancora di più nella loro appartenenza alla comunità come normali cittadini.

Hanno per esempio un buon rapporto formale con i giornalisti, ma non trascurano di far scendere in un attimo la saracinesca se il sereno discorso, a commento magari di una partita di calcio e iniziato dopo il casuale incontro al bar, trova riscontri o parallelismi con situazioni politiche o penali del momento, situazioni di carattere generale o peggio locale.

Insomma, teoricamente una razza insopportabile per i più invadenti e chiacchieroni di noi gazzettieri, che peraltro regolarmente e a torto ci indispettiamo se veniamo cortesemente… accantonati.

Dopo decenni di attività intensa nei palazzi di giustizia di Como e di Varese mi sono allontanato dal mondo della dea Temi, ma non ho lasciato ammuffire nel baule dei ricordi preziose esperienze professionali, la capacità di valutare, sia pure a volte con approssimazione dovuta a incompleta conoscenza degli atti, scelte e comportamenti di tutti i protagonisti di una vicenda giudiziaria.

A dare una base a questo aspetto della mia preparazione professionale furono un giovane pubblico ministero e un avvocato, Angelo Luzzani, riferimento nazionale dopo il celebre processo alla contessa Pia Bellentani che a un party a Villa D’Este aveva bersagliato a colpi di pistola un ex amico.

In questa preziosa scuola, anche di vita, ero un pizzico avvantaggiato avendo interrotto gli studi universitari in legge per dedicarmi alla professione – è vero che fare il giornalista è meglio che lavorare – ma grazie ai consigli di un giovane pubblico ministero e del grande lupo delle aule di giustizia e anche di suo nipote Dino, che sarebbe stato mio testimone di nozze, affinai conoscenze, doveri e limiti di un cronista in azione negli ambienti giudiziari.

Ambienti che con il passare del tempo ho visto soggetti a evoluzioni, riflesso inevitabile, ma recepito con cautela, di quanto la comunità nazionale socialmente e politicamente segnalava, e sempre segnala, come momento o tendenza generazionale e di progresso.

Essendo la magistratura cardine di una vera democrazia essa partecipa della scrittura della storia di una nazione, di un popolo. Alla formazione di ogni singolo magistrato concorrono la sua personale cultura giuridica e generale e inoltre i prudenti rapporti con il mondo esterno, del quale fanno parte non solo coloro che violano le leggi, ma anche cronisti invadenti, i birboni e pure sottili, perfidi ronzii provenienti da altri alveari che producono miele per mercati ristrettissimi. Per esempio i poteri forti e associazioni non dichiarate.

Riservatezza e prudenza sono per i magistrati aurei paletti del difficile slalom della loro professione.

Nel tardo Dopoguerra apparvero giudici innovativi, che dischiusero porte di una tradizione della quale facevano parte codici validi ma figli di un’epoca ingrata.

Di questo nuovo sentire furono singolari interpreti se ben ricordo i pretori d’assalto, avanguardie dirompenti, poi la politica ebbe a esercitare un certo fascino sulla giustizia, certamente contenuto e anche con risvolti positivi sul piano di revisioni e riforme legislative.

Quando dopo il fervore, l’entusiasmo libertario del ’68 ci trovammo nella notte della Repubblica la magistratura ci offrì i suoi eroi e i suoi martiri. Amati dagli italiani veri, i giudici furono in prima linea a difendere la libertà e le istituzioni democratiche al pari di politici, poliziotti, carabinieri, sindacalisti, giornalisti e infiniti cittadini,

Poi anche la grande guerra alla mafia volle la morte di magistrati da leggenda per coraggio, intelligenza, amore di Patria e della legge.

Ci sono stati nella nostra giustizia anche errori, abbagli, sentenze da rimediare. La perfezione è sempre un obiettivo molto difficile soprattutto nelle professioni più delicate; inoltre in tutte le magistrature può affiorare a volte qualche accenno di corporativismo, di benevola autogestione: te ne accorgi quando in campo nazionale a fine carriera a volte tagliano a pari merito il traguardo competitori perfetti con altri che non sempre hanno azzeccato le curve.

Aldilà del livello, comunque sempre soddisfacente, di coloro che sono chiamati a tutelarci nel nostro cammino civico e sociale, contano molto anche spessore e funzionamento della complessa macchina dello Stato e della sua burocrazia. Sgangherata in molti settori pubblici, l’azione dello Stato non brilla nemmeno per attenzione ed efficacia quando l’obiettivo è l’apparato giudiziario. E infatti ancora oggi ci sono disposizioni inadeguate perché sembrano più ispirate a necessità e principi economici e finanziari che alla reale tutela dei giudici e dei cittadini. Abbiamo infatti avuto periodici decreti svuotacarceri, depenalizzazioni, singolare attenzione a norme per le quali non si finisce dietro le sbarre anche per reati di allarme sociale. Devastante anche l’accettazione di detenzione di droghe leggere per “uso personale. Una scelta scassagiovani e le loro famiglie.

Tra gli obiettivi di uno statale presunto revisionismo umanitario non è stata nemmeno incisiva l’azione per fare di tutte le carceri uno strumento di rieducazione, di reinserimento sociale.

Lo Stato, le Regioni hanno una storia e una cultura nelle quali il prossimo, gli ultimi della fila per intenderci, da decenni vivono di promesse non mantenute.

Ancora ai giorni nostri la Giustizia attende dunque riforme costruttive, la possibilità di servire la comunità con un numero adeguato di persone e apparati e nel frattempo non mancano per gli stessi operatori situazioni non facili, difficoltà burocratiche, inadeguatezze strutturali che si trascinano da anni. E spuntano anche sentenze singolari, innovative, altro che i pretori d’assalto. Di recente uno spacciatore è stato mandato libero perché se non avesse venduto droga sarebbe rimasto… disoccupato. Una notizia di stampa, data senza molti approfondimenti, che ha richiamato l’italico refrain “tengo famiglia” proposto dal difensore dell’imputato. Il giudice sicuramente era in possesso di altri elementi e ha deciso forse anche riferendosi a un altro cardine della nostra giustizia, il “ libero convincimento del magistrato,” previsto dalla legge, oggetto di studi lunghi, approfonditi e accolto dalle regole generali del diritto. E applicato.

Qui a casa nostra di decisioni shock non ne ricordo. L’opinione pubblica però di recente si è divisa sulla pesante condanna inflitta a chi era accusato dell’assassinio di Lidia Macchi avvenuto 31 anni or sono. Gli innocentisti sembra abbiano prevalso. Io ho pensato a una studentessa assassinata parecchi anni fa alla Cattolica, a Milano. Caso insoluto, come quello di un’altra ragazza, pure molto credente, uccisa a Roma nell’atrio vasto e silenzioso di un palazzo abitato da famiglie di belle tradizioni e costumi esemplari.

Come a dire che i cattolici quando purtroppo si macchiano di sangue le mani sono abili a non farsi prendere? Tenendo conto anche della tragica vicenda di Lidia alla quale tutti abbiamo sempre guardato con dolore e tenerezza, la casistica fortunatamente è modesta. Ma ci credo.

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