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Società

SU QUELLA PANCHINA

MANIGLIO BOTTI - 09/11/2018

guerraTra quelli della mia generazione – chi scrive si avvia ormai con passo garibaldino verso i settanta – la prima guerra mondiale, la cosiddetta Grande guerra, è percepita come il primo conflitto di cui si ha memoria concreta e tragica per le tracce che lasciò.

Fu la guerra dei nonni, e coinvolse le nostre famiglie – per il numero delle vittime e dei feriti (i morti furono seicentocinquantamila, i feriti altrettanti, il doppio di coloro che caddero nella guerra successiva) – più della seconda guerra mondiale, appunto, che, sempre stando all’età di chi scrive, fu la guerra dei genitori, dei papà. Per altro una certa linea di pensiero storico tende ormai a considerare i due eventi bellici non separati tra loro (solo ventidue anni dalla fine dell’una e l’inizio dell’altra) ma come un unicum, un percorso del tragico Novecento con un solo filo conduttore.

La prima guerra mondiale, il suo ricordo, il canto famoso “il Piave mormorava… ”, il bollettino della vittoria firmato Diaz, il confine della patria al Brennero, Trieste italiana a torto o a ragione sono dunque stati, si diceva, buona parte del patrimonio della mia generazione, e molti di noi possono ricordare le celebrazioni del 4 Novembre, che era anche giorno di vacanza dalla scuola. Forse, e anche senza forse, perché la prima guerra mondiale fu una guerra vittoriosa, una guerra che ci vide quasi soccombere a Caporetto, ma poi ritrovare forza e unità (gli italiani stavano insieme da soli sessant’anni) sul Grappa e nella battaglia di Vittorio Veneto.

Non ci dovrebbe essere nessuna retorica. Ma qualcuno, oggi, tende a sminuire quanto accadde un secolo fa – l’Impero austro-ungarico firmò la resa con l’Italia il pomeriggio del 3 Novembre 1918 a Villa Giusti di Padova –, sostenendo che l’apporto dell’Italia fu scomposto, poco eroico, che gli alti comandi erano composti da incompetenti, quando non inetti, e anche sottolineando che la battaglia di Vittorio Veneto fu quasi un episodio occasionale e fortuito, nella cui “gestione” l’Italia ebbe pochissimi meriti.

Non fu così, e l’ha ricordato molto bene e correttamente Aldo Cazzullo, giornalista e storico, con un suo intervento di qualche settimana fa sul Corriere della Sera.

Non si vuole entrare nel merito diretto delle vicende. La prima guerra mondiale fu, come sostenne papa Benedetto XV anticipato qualche anno prima dal suo predecessore san Pio X, una “inutile strage”. Ma una tale definizione potrebbe essere attribuita a qualsiasi guerra. E nel mondo ne divampano ogni anno. Un caro amico diceva che le guerre hanno solo dei vincitori, da entrambe le parti: coloro che, combattendole, vi sopravvivono.

Tranne quanto accadde nell’ex Jugoslavia, la parte occidentale del continente europeo – e proprio grazie a quell’Europa unita di “ex nazioni” che si vorrebbe invece ricostituire a suon di critiche e di insulti – ha vissuto uno dei più lunghi periodi di pace della sua storia: settantatré anni.

Ancora: dare un giudizio tranchant sui fatti di ieri, specie se si allontanano nella memoria (e un secolo è già molto, tanto da fare sbiadire la storia), con la sensibilità di oggi è sbagliato. Per capire occorrerebbe calarsi nei momenti di allora, e non è certo facile.

La storia continua, va avanti, fa la sua strada e purtroppo non è mai maestra. Perché l’uomo, nonostante tutto, è sempre lo stesso. E le sorti magnifiche e progressive sono sempre un sogno. E negare i fatti trascorsi, annullare il dovere e il rispetto dei morti – comunque siano andate le cose – fa orrore, è un’ offesa della quale presunti scrittori di storia si dovrebbero vergognare.

Consentitemi un ricordo personale. Mio nonno materno Abramo, classe 1898, contadino umbro, era un Cavaliere di Vittorio. Aveva combattuto sugli altipiani di Asiago e aveva visto cadere accanto a sé il suo fratello maggiore. Il nonno aveva diciotto anni e suo fratello venti. La mia bisnonna, dopo la morte in guerra del suo primo figlio maschio, rimase di nuovo incinta, e volle chiamare il neonato – sei dicembre 1917 – con lo stesso nome del primo. È un eufemismo, ma non fu una scelta fortunata. Il destino si accanì. E quest’ultimo mio prozio cadde a Patrasso nella seconda guerra mondiale il 9 settembre 1943, il giorno dopo l’armistizio con gli alleati angloamericani.

In una sera d’estate di tanti anni fa – io ero quindicenne e mio nonno Abramo aveva meno anni di quanti ne abbia io adesso – eravamo seduti su una panchina di granito sull’uscio della nostra casa in Umbria, come usa in tanti paesi del centro-sud. Ebbi l’ardire di chiedere a mio nonno di raccontarmi qualcosa della guerra, la sua Grande guerra.

Il nonno non mi rispose e rincasò con le lacrime agli occhi.

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