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Souvenir

PETTINATURE

ANNALISA MOTTA - 09/11/2018

moiraProprio come Moira Orfei. Le signore à la page, quando ero una ragazzina, si pettinavano come la leggendaria circense: una torre di capelli supercotonati, superlaccati, lucidi e compatti, ma con due riccioli ammiccanti, rigidi come plastica, a decorare le guance (ve la ricordate, vero, la signorina Carlo?). Pettinatura proibitissima a noi adolescenti.

Noi si andava di trecce e treccine, lunghe sulla schiena, girate a rosetta sulle orecchie, intrecciate sul capo a mo’ di corona, raccolte a crocchia sulla nuca, o composte in un’unica grossa treccia che partiva dietro e scendeva davanti; le più sfrontate osavano la coda di cavallo, e per le occasioni speciali si sfoggiava uno chignon che richiedeva centinaia di mollette e grosse forcine di osso: e pure, magari, un piccolo toupet di crine, per gonfiare l’acconciatura. Unica alternativa, un bel caschetto a scodella con frangetta.

 Ma l’accessorio quotidiano, in ogni caso, taglio lungo o corto, era il cerchietto (di bachelite marroncina con i dentini per “aggrappare” meglio), che teneva lontano i capelli dal viso, dal quaderno, dal piatto. Perché la compostezza era virtù assai desiderabile, per le ragazze.

Ci fu poi la moda della fascetta, di filanca ovviamente, che potevi scegliere in vari colori: verde, giallo canarino, blu, panna. Meno ingombrante e delicata del cerchietto, te la potevi anche cacciare in tasca se volevi far scendere qualche ciocchettina sulla fronte in occasioni speciali… Il difetto era l’energia elettrostatica che produceva, specialmente in giornate ventose, facendo rizzare i capelli sulla testa in un’indesiderata aureola: inutile ogni tentativo di pettinarli e tenerli a posto. In compenso, se dovevi cercarla al buio, la fascetta sprigionava inquietanti scintille rivelatrici.

Beh, cerchietti e fasce vanno ancora, tra le ragazzine, anche se sono lontane anni luce dai manufatti anni ’60.

L’accessorio che invece è totalmente scomparso, è la retina. Le signore anziane, tradizionaliste, si facevano arricciare i capelli stretti stretti, scegliendo magari una nuance di viola a coprire il bianco; e tornate a casa, per far durare di più la piega, indossavano una retina sottile come ragnatela per tenerli in forma. E ci uscivano a chiacchierare sul pianerottolo, a far la spesa, a stendere in cortile, a curare l’orto. Solo in chiesa e dal dottore, se la toglievano, con grande attenzione per non “aprire” troppo i ricciolini.

 Ma c’era anche la retina da uomo: eh sì, lo dico con cognizione di causa perché la usava il mio nonno milanese. Un uomo piccolo e nervoso, di grande autorevolezza, il viso marcato dalle folte sopracciglia sale e pepe e da un naso importante, con una capigliatura riccia e ribelle, che faceva bellissime onde sull’ampia fronte nonostante il taglio corto (ma non cortissimo).

Le mie vacanze milanesi, di solito nei giorni di Pasqua, sono segnate da due teneri ricordi : il profumo del tostino di pane e formaggio che la nonna mi faceva trovare per colazione, e l’andirivieni agitato del nonno, vestito di tutto punto con cravatta e bretelle sulla camicia bianca dalle enormi maniche, la giacca al braccio, e la retina di seta grigia in testa, aderente come una seconda pelle, legata con un nastrino nero, che aveva indossato la notte.

“Varda che te gh’è anmò la retina…”

“Perché? Sunt minga bel istess?”

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