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Chiesa

PAPA SANTO E DI RIFORME

LIVIO GHIRINGHELLI - 09/11/2018

montiniIl 14 ottobre scorso Paolo VI è stato proclamato solennemente santo assieme a Oscar Ranulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador, difensore dei campesinos, ucciso sull’altare il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte, entrambi martiri della fede, dell’identità cristiana in un difficile contesto storico e culturale dell’umanità.

Paolo VI e Romero hanno significato l’importanza dell’interpretazione sapienziale e profetica del Concilio, su cui hanno fondato il loro servizio ministeriale. Paolo VI, martire incruento, papa riformatore (vedi l’udienza pubblica del 7 maggio 1969: Eccledia semper reformanda) ci ha dato l’esempio di un pontificato crocifisso nell’imitazione di Cristo, offrendosi liberamente alla sua passione, affrontando, con sofferenza acuta, ma con fermezza e capacità di mediazione, la gestione delle assise conciliari tra i molteplici dissensi e i vasti segni di contraddizione, poi soprattutto sapendola tradurre in una graduale sapiente opera di rinnovamento.

Molte le trafitture dolorose della “corona di spine del suo pontificato”, per sua stessa definizione. Tra i grandi meriti: il rinnovamento liturgico con l’introduzione della nuova messa in volgare a livello locale (1970), l’impulso a una maggiore collegialità nella Chiesa (creazione del Sinodo dei vescovi, 14 settembre 1965), il forte slancio ecumenico (memorabile l’abbraccio nel 1964 col patriarca di Costantinopoli Atenagora; la dichiarazione comune cattolico-ortodossa del 1965; la collaborazione del cardinale Augustin Bea, presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani; il regolamento delle relazioni Chiesa-Religione ebraica), l’enciclica Ecclesiam Suam, la prima del suo Pontificato (1964), magna charta del dialogo tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo; l’abolizione dell’Indice dei libri proibiti (1966) e nel 1967 l’istituzione della Giornata mondiale della pace; la chiamata universale alla santità (uno dei cardini della Lumeb Gentium, Costituzione dogmatica sulla Chiesa); il persistente contatto, la profonda sensibilità verso le esigenze del mondo del lavoro (vedi la messa nel Natale del 1968 tra gli gli impianti dell’Italsider di Taranto ); la valorizzazione del principio della vocazione e missione dei fedeli laici (Pontificio consiglio dei laici – Pontificia commissione Iustitia et Pax); il superamento definitivo, a istanza del Concilio, del collateralismo tra la Chiesa e la politica (scelta religiosa) e con la Pontificalis domus del 1968; l’abolizione delle vecchie funzioni della nobiltà romana in curia; l’espressione di un autentico spirito evangelico, dopo la rinuncia all’uso della tiara papale (1964); la limitazione agli ottant’anni per la partecipazione dei cardinali al conclave e la chiamata alla pensione dei vescovi residenziali al fine di un necessario ricambio generazionale. Numerosissimi i viaggi sia in Patria sia all’estero, pellegrinaggi di indubbio fascino ed efficacia dopo quelli di Giovanni XXIII.

Non facile è stata la sua opera riformatrice, con l’accentrarsi su di lui delle accuse di modernismo per un verso, provenienti dal settore dell’accanita conservazione, e di immobilismo dall’ altro (quello del progressismo). In causa soprattutto in un mondo sempre più scolarizzato e individualistico l’Humanae vitae del 25 luglio 1968 sul controllo delle nascite e la contraccezione, preclusa alla vita coniugale, onde l’appannarsi della sua autorevolezza soprattutto nel mondo laico.

Già era intervenuta in materia l’Enciclica Casti Connubii di Pio XI. Bersaglio la scissione nel matrimonio della dimensione unitiva da quella procreativa tradizionale; non dissociabili nell’amore piacere e procreazione. Così l’enciclica Sacerdotalis Caelibatus (24 giugno 1967) veniva a confermare quanto sancito dal Concilio di Trento rispetto alle istanze di un allentamento della disciplina. Altrettanto ferma la resistenza alle teorie conciliariste per quanto concerne i rapporti tra il primato papale e la collegialità episcopale.

Nato a Concesio (BS) il 26 settembre 1897 da famiglia di fedele tradizione cattolica (il padre, avvocato Giorgio, era direttore del quotidiano cattolico di Brescia Il Cittadinoe fu deputato del Ppi per tre legislature), Giovanni Battista Montini è stato per ragioni di salute alunno esterno del Collegio “Cesare Arici” di Brescia, tenuto dai Gesuiti; conseguito il diploma superiore al liceo classico statale Arnaldo da Brescia, si è indirizzato al seminario. Nel 1918 collabora autorevolmente al periodico studentesco della città La Fionda e nel 1919 all’attività della Fuci. Il 29 maggio 1920 è ordinato sacerdote dal vescovo Giacinto Gaggia. Consegue sempre nel1920 il dottorato in diritto canonico alla Gregoriana, quindi la laurea in diritto civile nella stessa Università e in lettere e filosofia alla Statale di Roma (laurea nel 1924). Su richiesta di Giuseppe Pizzardo è ammesso all’Accademia dei nobili ecclesiastici. Nel 1923 è avviato agli studi diplomatici alla Pontificia accademia degli ecclesiastici.

È l’inizio della collaborazione ai lavori della Segreteria di Stato. Tra il giugno e l’ottobre del 1923 si impegna a Varsavia come addetto alla Nunziatura (forte è la preoccupazione a causa dell’esasperato nazionalismo polacco). Non si dedicherà mai a esperienze di tipo parrocchiale. Nell’ottobre del 1925 diviene assistente ecclesiastico nazionale della Fuci accanto al presidente Igino Righetti e si impegna con lui in un’opera di riorganizzazione. Se ne dimette in capo a otto anni. Il 13 settembre 1937 è nominato sostituto alla Segreteria di Stato a lato del cardinale Pacelli. Collabora alla stesura del suo messaggio papale inteso a scongiurare il pericolo della guerra. Nel 1944 diventa, accanto a Domenico Tardini, pro-segretario di Stato. Svolge un’intensa opera di assistenza nei confronti di rifugiati ed ebrei.

Il 1° novembre 1954 Giovanni Battista Montini è nominato arcivescovo di Milano. Non si tratta di un esilio, come sospettato in più ambienti, ma di un periodo di prova sul campo (questa l’interpretazione da dare per il filosofo Jean Guitton).

A Milano fervono i grossi problemi della ricostruzione postbellica, dell’immigrazione dal Sud, del mondo del lavoro, dell’ateismo e marxismo in via di diffusione, del dialogo e conciliazione con tutte le forze sociali. Qui la necessità della grande missione.

Montini promuove la costruzione di oltre cento nuovi luoghi di culto. Intenso è il dialogo coi protestanti, specialmente con gli anglicani. Nell’ottobre del 1957 presenta a Pio XII il Secondo congresso mondiale per l’apostolato dei laici.

Nel concistoro del 15 dicembre 1958 Montini è nominato cardinale da Giovanni XXIII (l’amicizia consolidata tra i due dura dal 1925). Nel 1960 compie viaggi negli Stati Uniti e in Brasile, nel 1962 in Africa. È componente della commissione preparatoria del concilio Vaticano II. Viene eletto Papa col nome di Paolo VI al sesto ballottaggio del conclave il 21 giugno del 1963.

Il 27 novembre 1970 è vittima di un attentato nelle Filippine ed è salvato da un provvidenziale intervento del suo segretario, monsignor Pasquale Macchi. Al momento del sequestro di Moro fa comparire sugli organi di stampa una lettera perché l’amico venga liberato dalla prigionia delle Brigate Rosse senza condizioni.

Memorabili e toccanti le parole dopo il ritrovamento del cadavere il 9 maggio, durante la messa di suffragio: “Tu, o Dio, non hai udito la nostra supplica per l’incolumità di questo uomo buono, mite, saggio, innocente, edamico “ con la conclusione “Signore, ascoltaci”. Il 6 agosto1978 a causa di un edema polmonare, Paolo Vi si spegne a Castelgandolfo.

È dichiarato venerabile nel 2912, beatificato il 19 ottobre 2014. Purtroppo dopo di lui e dopo Papa Luciani la linea montiniana è stata lasciata cadere. Se c’è una prosecuzione nel rinnovamento dei rapporti ad extra tra Chiesa e mondo (presenza militante della Chiesa come forza sociale, astratto progetto culturale cristianamente ispirato, insistenza pressante sui principi assoluti non negoziabili), ad intra si registra più che altro una continuità col passato (la tradizione).

Epperò anche in questo periodo si affacciano profeti fedeli alla lettera e allo spirito del Concilio.

Di Paolo VI vanno ricordati il carattere dignitoso e riflessivo, austero, il comportamento pacato e signorile, l’attitudine al dialogo e alla mediazione, la spiritualità tormentata e sottile, l’umiltà, la cultura profonda, raffinata e aggiornata, la fedeltà inconcussa alle amicizie e soprattutto l’aver guidato il popolo di Dio (così si è espresso Benedetto XVI) alla contemplazione del volto di Cristo, l’essere in sintonia col travaglio dei tempi moderni . Quello che talora è parso un passo troppo lento ed esitante sulla via delle riforme è stato solo segno di una prudenza controllata, di una avvedutezza premurosa nel conservare l’unità del gregge.

La riabilitazione, il risarcimento di papa Francesco si pongono nel solco di una ripresa del cammino, se non gloriosa, certo chiara all’insegna della misericordia, della pietà evangelica.

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