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Urbi et Orbi

GLI OCCHI DI GIGI

PAOLO CREMONESI - 23/11/2018

gigiVerso la fine degli anni Settanta il Teatro Tenda fu un polo d’attrazione a Casbeno. Grazie a un’innovativa programmazione noi giovani potevamo partecipare ai concerti di Branduardi, Finardi, Camerini e assistere a recital teatrali come: ‘A me gli occhi, please’.

Proprio in quell’occasione mi capitò uno degli incidenti di lavoro più divertenti. Raggiunto Gigi Proietti nel camerino, dopo lo spettacolo, armato di registratore a tracolla cominciai un’ intervista. Ma più andavo avanti nelle domande, più lo showman romano strabuzzava la sguardo, mentre sulla sua faccia si disegnava una maschera tra lo stupito e il divertito. Voltandomi verso il registratore mi accorsi che la cassetta (parliamo di 40 anni fa) si era incastrata e il nastro fuoriusciva in lente volute dalla custodia. E Proietti guardando ora me, ora l’apparecchio commentò “ Mah! Forse è mejo che la rifamo…”.

L’attore e regista non ha mai perso quello sguardo ironico con cui leggere i fatti della vita e che rappresenta ancora oggi uno dei punti di forza del popolo romano. Lo si vede bene per esempio nei sonetti che, sulla scia del Belli, ogni tanto scrive. Eccone uno di stretta attualità: “Dunque vedemo: ‘n dove stamo annanno? Ar Paese je piace er populismo / Quarcuno se n’è accorto e vo’ fa danno. Dice che qui è sbarcato er terrorismo / E io lo sto a sentì, ma me domanno: Che ce lo dici affa’, questo e’ cinismo! / Pe’ du’ voti ce fai morì d’affanno… ‘Na vorta se chiamava opportunismo”.

Il sonetto a Roma è stato per lunghissimo tempo una forma popolare per contestare il potere. La plebe utilizzava versi e quartine spesso violente che venivano scritte su fogli attaccati sotto le cosiddette statue parlanti : Pasquino, Marfoglio. Le rime poi venivano imparate a memoria e trasmesse nei vari quartieri della capitale: una forma antesignana di comunicazione in rete.

Eccone un altro sull’eterna diatriba Roma/Milano: “Che me volete di’, che so volgare se dico che m’avete rotto er c….? / Manco posso parla’ come me pare? Che me volete mette in imbarazzo? / Ve ne volete anna’ da ‘sto Palazzo? Portateve via tutto er malaffare! Lasciatece le chiese per rimpiazzo. Che armeno c’è’ rimane qualche artare / Senza che stiamo a ffa’ tanti misteri. Se a Milano davero so’ più’ bboni, mannamoli lassù’ li Ministeri / Pero’ ‘lassù’ non fateve illusioni. Perché non c’è’ domani senza ieri… E pure lì romperanno li cojoni”.

Lo sguardo disincantato di questo personaggio che insieme a pochi altri come Verdone, la Ferilli, Totti è l’emblema della romanità si volge anche ai muri della città. Le scritte sono tra le poche cose rimaste a testimoniare l‘ironia locale. “ Ce n’è una a San Lorenzo – racconta –- che esisteva già al tempo dei figli dei fiori: Se avessi le ali, volerei… Qualcuno sotto ha aggiunto: “Grazie al c…” Oppure: “non desiderare la donna d’altri… Tanto rompe come la tua”.

In una novella pubblicata nel suo ultimo libro ‘Decamerino’, Gigi Proietti immagina che la cosiddetta invasione dei migranti si svolga al contrario. Giovani italiani, pensionati, disoccupati lasciano in massa il nostro paese per raggiungere la Libia. “Però i libbici non se ne preoccupano più’ di tanto. Sanno che pe’ l’italiani è de passaggio. Je danno un po’ di provviste per raggiungere er Niger,lo Zambia o la Nigeria indove troveno lavoro e accoglienza”.

Ma poiché l’esodo continua l’Unione Africana entra in fibrillazione: “Qui si rischia che entro il 2035 l’Africa diventi tutta bianca e nel Burundi la lingua ufficiale il romanesco”. A fronte di chi vorrebbe costruire muri o bombardare le coste italiane (‘ndo cojo cojo”) i capi libici decidono così di inviare propri emissari a parlare con le varie tribù italiane, cercando di convincerli a costruire campi profughi nel nostro paese: “Questo impedirà’ d’ora in avanti – concludono – che qualche mafia equatoriale se freghi gli euri destinati ai profughi italiani. Che sarebbe ‘na vergogna pe’ tutti i popoli africani ! ”.

Meditate gente, meditate.

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