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Storia

PASSATORI E CRIMINALI

MANIGLIO BOTTI - 11/01/2019

shoahLa città di Varese, e poi anche la sua provincia, non è mai stata una terra con una rilevante presenza di persone di origine ebraica. Al contrario, per esempio, di altre città abbastanza vicine della Bassa piemontese, Casale Monferrato, nell’Alessandrino, o Vercelli, dove ancora oggi a quasi settantaquattro anni dalla anni dalla fine della guerra, si possono ritrovare e visitare le sinagoghe e le strade del ghetto, simboli di una memoria che il nazifascismo non riuscì a cancellare. Questa condizione, probabilmente, va ascritta alla vicinanza di Varese con Milano e ai legami – per lo più di carattere vacanziero e naturalmente imprenditoriale – con il capoluogo lombardo.

Dopo l’emanazione delle leggi razziali da parte del regime fascista – settembre 1938 – si trovavano residenti a Varese e nel suo circondario un centinaio di famiglie di origine ebraica, per un totale di poco meno di duecento persone. Tutte “attenzionate”, in particolar modo dall’inizio della guerra in poi, dalle autorità locali di polizia. Si trattava, in linea di massima, di professionisti o commercianti, piccoli e medio-grandi imprenditori, tutti o quasi aventi come riferimento Milano e le sue attività.

Le cose – almeno dal punto di vista della presenza o del transito di ebrei nella nostra città e dei piccoli paesi della provincia – cambiarono in modo esponenziale dal settembre del ’43 a tutto il ’44 e anche nei primissimi mesi del ’45, quando Varese, alla pari delle zone del Comasco o del Piemonte confinanti con la Svizzera, diventò un crocevia di umanità, una sorta di strada verso il rifugio e verso la salvezza dalle deportazioni.

Ed è qui, in queste circostanze, che a Varese, come in altre città, si manifestarono le risposte al quesito se rispondesse a verità il detto “italiani brava gente” o se prevalsero invece gli atteggiamenti di disinteresse, di acquiescenza al regime, di egoismo anche, che hanno un loro carattere generale e purtroppo inesorabile. Quasi un riproporsi nelle plaghe varesine delle tematiche espresse da Daniel Goldhagen in una ricerca, poi pubblicata, e divenuta famosa soprattutto nel titolo: “I volenterosi carnefici di Hitler”.

Di questa storie ha scritto in un suo magistrale “libretto” (in realtà un molto ben documentato saggio scritto con la solita partecipata cura non priva di emotività) il varesino Franco Giannantoni, già inviato speciale del quotidiano Il Giorno: “La Shoah, delitto italiano” con paragrafi in particolare relativi alle vicende registratesi nelle nostre località e non soltanto: la collaborazione dei prefetti, dei questori, dei podestà; gli arrestati e i deportati; gli elenchi degli ebrei e dei comunisti; Liliana Segre e i Balcone, due storie di confine; i tradimenti delle “guide”; le razzie dei beni; i rastrellamenti negli ospedali; la “zona chiusa”; i misfatti impuniti…

Del saggio di Giannantoni, ormai accreditato come uno dei principali studiosi su questi “anni neri” di storia italiana, specie nel Varesotto, qualche tempo fa, ha già parlato per noi il giornalista Cesare Chiericati. Entrambi, e lo sottolineiamo con un certo orgoglio, sono stati e sono due collaboratori di punta del giornale RMFonline. Si vuole ora ribadire di nuovo un aspetto di quelle vicende che deve essere uno spunto di riflessione e, se del caso, anche di ammenda.

L’attenzione si focalizza su alcune vicende di squallore, di disinteresse e di odio cui invece memorabili imprese di solidarietà di religiosi – ma non solo: su tutti va ricordata la figura di Calogero Marrone, capufficio dell’anagrafe del comune di Varese – nel momento di massima affluenza di ebrei nelle terre varesine cercarono di opporsi.

Franco Giannantoni scrive che sei, settemila ebrei – dopo l’emanazione delle leggi razziali – si rifugiarono nel Varesotto con l’intento di espatriare nel Canton Ticino, verso la salvezza. Ma la caccia fu spietata. E non tutti – si afferma nel libro – riuscirono nell’impresa. Così come accadde nel Novarese e nel Comasco.

A impedirglielo, insieme con le autorità e le milizie fasciste, furono anche personaggi comuni che non meriterebbero, solo per la loro incurante malvagità, nemmeno una citazione, se non fosse per riaffermare che spesso, i loro reati, alla fine della guerra, furono quasi cassati e dimenticati. Ci si riferisce ad alcuni “passatori” – perché altri invece si comportarono lealmente pur facendosi “rimborsare” il loro rischio – che richiedevano con esosità cifre e beni spropositati alle famiglie di ebrei in cerca disperata della salvezza, e altrettanti se ne facevano dare dai nazifascisti nelle cui mani, di notte, sulle montagne abbandonavano i fuggiaschi.

Personaggi spietati e non mossi da nessun’altra ideologia se non quella del “denaro facile” ce ne furono. Così come non è vano ricordare che a tradire Calogero Marrone, il quale dall’anagrafe varesina dispensava falsi documenti agli ebrei in fuga, furono suoi colleghi di ufficio. Marrone morì a Dachau. Le persone che lo tradirono vissero senza nessun perseguimento della giustizia e, forse, anche senza nessun peso sulla coscienza.

Del tradimento dei passatori furono vittime in particolare due personaggi importanti, due figure di donne che hanno caratterizzato nel ricordo quelle vicende terribili: Liliana Segre, nominata alcuni mesi fa senatrice a vita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e Goti (Agata) Herkovits Bauer, di Fiume, ultranovantenne, arrestata con il fratello a Cremenaga a qualche centinaio di metri dalla salvezza. Sia la senatrice Segre sia la signora Goti sopravvissero al campo di sterminio di Auschwitz.

In un libro pubblicato qualche anno fa, Come una rana d’inverno, nel quale la scrittrice Daniela Padoan, ricorda le vicende di Liliana, di Goti e di Giuliana Fiorentino Tedeschi, anch’essa deportata a Auschwitz e oggi scomparsa, c’è una pagina commovente e nobile. Di quando Goti Bauer, in transito a Cremenaga sui luoghi del suo arresto, si sentì dire dall’autista dell’auto: vuole vedere la villa che il “passatore” si costruì con i soldi del suo tradimento? La signora Goti rispose: andiamo oltre. Una risposta nobile che tuttavia non ci può indurre a dimenticare.

Nella foto: autunno 1943, un gruppo di ebrei catturati nei pressi di Dumenza mentre tentano di varcare il confine (da Franco Giannantoni, “La notte di Salò (1943-1945)”, Varese, Arterigere, 2001)

 

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