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Società

CACIOCAVALLO

GIOIA GENTILE - 18/01/2019

conadI miei simili non finiranno mai di stupirmi. L’ultima occasione me l’hanno fornita le critiche che si sono scatenate – non riuscivo a crederci – a proposito della pubblicità natalizia della Conad. Per chi non l’avesse visto, lo spot si svolge nel modo seguente. Un ragazzo riceve una telefonata. I suoi familiari, padre, madre e sorella, lo guardano ansiosi e interrogativi. “Assunto. Parto domani” comunica il giovane e dal suo accento si capisce che abbiamo a che fare con una famiglia di meridionali. “Ma è Natale!” protesta la madre. La scena cambia e si vede la donna che mette nella valigia del figlio, proprio sopra le camicie inamidate, salame e caciocavallo. Il ragazzo protesta e li toglie. Il padre allora interviene sostituendo i viveri con la tessera Conad: “Con questa ti compri le nostre cose e pensi a noi”. Altra scena: il figlio esce di casa con passo incerto mentre i genitori lo guardano allontanarsi e una voce in sottofondo dice “A tutti i nostri ragazzi che vanno lontano Conad augura buone feste”.

Apriti cielo! I nordisti politicamente corretti hanno inveito contro la pubblicità razzista. I sudisti, indignati, hanno sciorinato tutta una serie di argomentazioni sui luoghi comuni, sul Sud che non è più quello delle valigie di cartone legate con lo spago, sulle madri del Sud che mai e poi mai metterebbero il caciocavallo sulle camicie del figlio, ma, eventualmente, lo impacchetterebbero a parte in busta chiusa e sigillata. Offesi, gli uni e gli altri, dall’autore di un tale affronto. Che, tra parentesi, è Gabriele Salvatores, uomo del Sud pure lui.

È incredibile come il mondo sia pieno di gente che non ha niente di importante a cui pensare, mi sono detta. Perché tutte queste implicazioni sociologiche io proprio non le avevo viste. Anzi, a me la pubblicità è sembrata particolarmente efficace e coinvolgente e, quando ho scoperto chi è il regista, ho anche capito perché, riconoscendone il tratto e la sensibilità. La scelta dei personaggi mi è sembrata particolarmente indovinata, tanto che in lui ho ritrovato il mio cugino preferito: serio e deciso, ma al tempo stesso rispettoso delle scelte dei figli, capace di consigliare senza imporre, di amare senza essere invadente. E nello sguardo di lei ho riconosciuto sua moglie, maternamente ansiosa, premurosa e accogliente, ma anche capace di ritrarsi, pur nella sofferenza, per il bene dei suoi cari.

È evidente, per chiunque guardi quella scena senza preconcetti, che nessuna donna, in nessun paese d’Italia, metterebbe mai il formaggio sulle camicie del figlio; che il caciocavallo è una metafora, il simbolo dell’affetto materno, che a tutte le latitudini e in tutte le culture si esprime attraverso il nutrimento. Forse in quel gesto c’è un ammiccamento bonariamente ironico al mammismo italiano, ma nulla di più. Il fatto che quella famiglia sia del Sud è del tutto secondario.

E poiché il messaggio che vuole comunicare è che il supermercato in questione è casa, madre e padre insieme, mi sembrerebbe più logico discutere sulla sua capziosità, sulla sua forza manipolatrice, che su un suo ipotetico intento discriminatorio.

Ma poi, perché non lasciare da parte, per una volta, le polemiche e limitarsi ad apprezzare la capacità di rendere poetico, con poche immagini, persino il caciocavallo?

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