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Presente storico

L’INFEZIONE LATENTE

ENZO R. LAFORGIA - 25/01/2019

immigrazioneQuando sono entrato nello studio medico, in sala di attesa c’erano già due donne, un cane e un uomo. Le due donne, distinte e ben vestite, erano di età diversa: una aveva superato i sessant’anni e aveva un cagnolino al guinzaglio, al quale si rivolgeva con tenerezza; l’altra era forse prossima ai trenta. L’uomo era appartato, con lo sguardo assente. Io ho salutato, mi sono seduto e, per passare il tempo, ho iniziato a controllare i messaggi sul mio telefono. Non volendo, ho ascoltato…

Le due donne stavano parlando tra loro. Si conoscevano. La donna col cane ha detto all’altra: «Ormai in quella zona ci sono solo stranieri… L’altro giorno, alla fermata dell’autobus, c’erano due donne con quattro figli ciascuna. Come fanno a mantenerli?» «Li manteniamo noi!», ha risposto la più giovane, con aria saputa. «No, cara…», ha replicato l’altra, «Lo Stato ci toglie i soldi per darli a loro! Ormai sono dappertutto! Pensi che se voglio mangiare italiano devo andare alla gastronomia siciliana.» E poi, con atteggiamento complice, sporgendosi in avanti e facendo roteare la mano libera dal guinzaglio: «Se possiamo chiamare italiani i siciliani…» «Tutta quella zona», ha detto l’altra, «ormai è un ghetto. Ci sono soltanto “loro”». «Guardi…», le ha fatto eco l’altra, «quando si avvicinano, lui… – e ha indicato il suo cane – abbaia. Li riconosce dalla puzza».

La chiamata del medico ha interrotto la conversazione. La signora più anziana ha salutato educatamente ed è scivolata via con il cane.

Questo dialogo è avvenuto una settimana fa. Tra persone distinte, di fronte ad altre persone distinte, nel centro cittadino. Io sono restato silenzioso. Incapace di intervenire. Forse paralizzato dalla curiosità di sentire sino a che punto si sarebbero spinti i discorsi delle due donne. O forse disarmato di fronte ad oscenità esibite con tale disinvoltura.

Il fatto è che non ho più né voce né argomenti per contrastare le falsità, gli stereotipi ingiuriosi, i pregiudizi più odiosi che con sempre più facilità vengono esibiti in ogni contesto comunicativo. La ragione sembra non avere più strumenti. Il tempo disteso del ragionamento si scontra con la velocità dell’urlo e ne viene sopraffatto. La bestemmia disumana viene quotidianamente legittimata dalle parole pronunciate dai rappresentanti delle istituzioni o da autorevoli esponenti politici, replicate ossessivamente dal sistema dell’informazione, moltiplicate su ogni social network, penetrando e diffondendosi su ogni schermo, su ogni monitor, su ogni display. Sembra che il rancore sia diventato il sentimento prevalente e che per alimentarlo ci sia bisogno di inventarsi un nemico sempre nuovo, un nemico su cui orientare i propri fallimenti, le proprie insicurezze, le proprie paure.

È di questi giorni la notizia di un senatore (…e pensare che un tempo il Senato era considerato la “camera alta”, dove prendevano posto e parola personalità illustri e autorevoli), che ha condiviso un testo in cui si evocava – di nuovo! – lo spettro dei Protocolli dei Savi di Sion. Per chi lo avesse dimenticato, i Protocolli dei Savi di Sion sono un documento falso, creato dalla polizia zarista all’inizio del Novecento, allo scopo di alimentare l’odio antiebraico. Ebbe un notevole successo anche in Italia e in Germania quando andavano di moda camicie nere e brune. Anzi, potremmo dire che la campagna razzista antiebraica in Italia fu inaugurata proprio dalla pubblicazione di questo testo per la casa editrice di Giovanni Preziosi, «La vita italiana». Il volume uscì nel 1937 con un’ampia introduzione di Julius Evola. Ovviamente, i responsabili del partito del suddetto senatore hanno espresso pubblicamente sdegno. Ma si sono ben guardati dal mettere in discussione il posto che un simile personaggio occupa nelle istituzioni. Nessuno ha ritenuto che il richiamo ai Protocolli dei Savi di Sion, con tutto l’implicito corredo di una millenaria tradizione antisemita, fosse ancor più violento e offensivo perché avvenuto proprio in prossimità del Giorno della memoria, ricorrenza commemorativa istituita da una legge dello Stato nel 2000. Una legge emanata proprio da quel Parlamento, di cui fa parte quello stesso senatore.

Che relazione c’è tra l’odio nei confronti di uno straniero immaginato e l’evocazione dell’eterno e malefico ebreo immaginario? La relazione la suggerisce proprio un testo ed un autore che nei prossimi giorni sentiremo citare spesso. E che forse sarebbe opportuno leggere, più che citare.

Nella Prefazione a Se questo è un uomo, Primo Levi ci mette in guardia da quei falsi sillogismi, che sembrerebbero logici ragionamenti, se non fosse che le loro premesse sono fallaci. Scrive Primo Levi: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo».

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