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Stili di Vita

ADIEU

VALERIO CRUGNOLA - 25/01/2019

cieloIn quali forme desideriamo venire ricordati appena dopo la nostra morte? Questa domanda riguarda tutti. Possiamo riformularla con un’altra ancora più a monte e ancora più radicale: davvero sentiamo la necessità di venire ricordati in un contesto pubblico? Questa necessità vale peraltro per chi sopravvive; ma non a tutti si addice.

Mi sono convinto che le parole, qualunque parola, in certe circostanze siano sempre troppe. Specie nei momenti in cui si strozzano in gola, fluiscono con difficoltà o rischiano di farsi sfocate.

Non ci è facile immaginare un addio del tutto senza riti. Quello cristiano è consunto, se non per quei pochi che hanno una fede davvero profonda; e quando il sacerdote predica c’è sempre qualcosa che suona stonato anche a chi crede, perché i celebranti di norma seguono un protocollo, uno schema argomentativo pressoché uguale per ogni defunto. I riti laici, in significativa crescita, vengono “concelebrati” da familiari e amici. Attorno al defunto vi è una trama di legami orizzontali, e il rito non è un duplicato seriale. Ma anche un congedo che tenta di sostituire le religioni storiche con una religione laica, per esempio di tipo civile, o con credenze millenaristiche di tipo mondano, rischia di cadere in una sovrabbondanza rituale, o di tradursi in un compito.

Meglio sarebbe semmai posticipare il ricordo. La riservatezza delle procedure di congedo e di inumazione o cremazione del cadavere aiuta a preservare l’intimità delle poche persone davvero prossime e care in una cerchia più ristretta, la sola che possa alleviare lo strazio indicibile.

A distanza di qualche mese invece, quando il lutto è divenuto meno pesante, forse è bene ricordare la persona cara con atti che celebrino la vita: un pranzo, un brindisi, una festa danzante, un concerto, una proiezione di foto, momenti condivisi di evocazione, sommessi elogi funebri dove le parole fluiscono e i ricordi si intersecano formando un tessuto. Momenti dove parla chi conosce, senza cerimonieri, senza esibizionisti tra i piedi, senza retorica e senza sovrabbondanze.

La morte non è solenne, è un destino. La solennità rituale e scenica alza il tono emotivo ma non aggiunge nulla di sostanziale. Nessuna competizione con le religioni; niente citazioni di guru alla Terzani (tanto per capirci) o di gran filosofoni al posto di San Paolo; niente frasi lapidee trovate su internet e forse attribuite a qualcuno che non le ha mai scritte; niente canti a surrogare i salmi.

Fluidità, confidenza, toni smorzati, pochissima enfasi, sobrietà: con queste caratteristiche, fare festa in occasione della morte può essere un buon modo per addolcire o dissalare il dolore e gustare la gioia di vivere e la gratitudine per chi è scomparso. Il compianto, così straziante in prossimità della fine di una persona amata, resta necessario, ma a tempo debito, quando la vita di chi resta ha ripreso il sopravvento sull’evenienza della morte. Ciascuno deve affrontare il proprio dolore; ma guardare in volto lo strazio degli altri, assorbirlo come una spina nella carne e tradurlo in atti linguistici è molto più penoso. Solo oltre questa soglia la “festa” può tradurre lo strazio della perdita nella dolce consolazione reciproca, sia pur mesta, dei vivi.

Ma anche simili liturgie (tutte affidate all’inventiva del morituro o dei parenti) sollevano dei dubbi. E anche se fossero adottate, le parole dovrebbero restare sempre parche e misurate. La morte è il silenzio definitivo, irreversibile e inudibile. Serve davvero ai vivi riunirsi in un luogo, magari non necessariamente deputato allo scopo, per ricordare in comune la persona cara e renderle omaggio? Ha ancora senso la laudatio pubblica, l’orazione commemorativa? Non saprei: forse per poche persone davvero esemplari, non necessariamente famose o ricche o morte in circostanze tragiche.

 Sono stato convinto a lungo dell’importanza di momenti di riflessione pubblica, chiunque fosse la persona defunta, indipendentemente dal prestigio, dalle opere compiute o dalla sua storia. Ora ho delle perplessità. Spesso la condivisione pubblica fa defluire in una sola volta l’intensità emotiva e attenua l’intimità individuale dei percorsi di ricordo e di evocazione degli affetti, l’ingabbia, l’ingorga e poi facilmente l’archivia. Non sono pochi quelli che in questo ingorgo vengono silenziati dalla fatica di esprimere e di mostrare.

Ognuno si regoli come crede; ognuno, se può, disponga in anticipo come desidera essere ricordato, quando e da chi. Tra queste disposizioni va contemplata anche quella di poter scivolare via nell’inosservabilità esteriore che caratterizza il cessare della vita. La vita è (o dovrebbe essere) un percorso di crescente intimità con se stessi e con quanti abbiamo nutrito relazioni elettive. Se questo è stata, la vita può chiudersi nascostamente, sottotono, con mitezza e misura.

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