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Parole

MEMORIA E CONFORTO

MARGHERITA GIROMINI - 01/02/2019

grossmanGiorno della Memoria: triste ricorrenza che ci rammenta quanto in basso è potuto scendere l’essere umano. La cittadinanza è stata invitata alla rappresentazione dal titolo “Viktor caro”, al Teatro Santuccio di Varese.

Il gruppo teatrale del Liceo Artistico Frattini di Varese ha messo in scena la straziante lettera di una madre ebrea ucraina al figlio. Per lei non ci fu ritorno. Mentre il figlio, lo scrittore dissidente sovietico Vasilij Grossman, scampò alla Shoah.

Fu uno dei corrispondenti di guerra che con l’Armata russa entrò nel lager di Auschwitz: testimone lucido e dolente della profonda ferita inflitta dalle deportazioni, con il loro carico di spoliazione e di annientamento che oggi riusciamo solo a immaginare.

La lettera della madre, lunga e straziante, è carica di preveggenza sulla sorte che sta per abbattersi sugli ebrei del villaggio. Diventa un inno di amore per il figlio, scritto mentre si fa strada l’orrore della violenza e della morte.

Lo spettacolo inizia.

I ragazzi, guidati dai professori Minidio, Antonelli e Montonati, prendono posto su una lunga riga di sedie al centro del teatro; di fronte, specularmente, sta la fila di altrettanti spettatori coinvolti direttamente nella performance.

Ogni ragazzo recita una parte della lettera.

In silenzio poi, si alzano e consegnano agli spettatori un oggetto personale, un frutto, una patata, una tazza, un paio di occhiali.

Giunge il momento della svestizione fisica. Ogni attore si priva di un indumento: un cappello, le scarpe, una sciarpa, una giacca, la camicia.

Mentre gli indumenti vengono ceduti, in sala aumenta la tensione, percepibile nella voce commossa dei ragazzi, nell’afrore prodotto dalla tensione della recita, sottolineata dal pallore, reale e non scenico, di un’esile ragazza vestita della sola calzamaglia. Trema, un po’ per il freddo, un po’ per la disperazione che deve rappresentare.

“Viktor caro” scandisce la madre “Questa mattina i tedeschi mi ricordarono ciò che avevo dimenticato in anni di potere sovietico: sono ebrea”.

“Juden kaputt” gridavano.

… “Sotto la mia finestra la moglie del portinaio commentava che, grazie a Dio, gli ebrei hanno i giorni contati.… Dopo qualche giorno ci è stato detto che gli ebrei dovevano lasciare le loro abitazioni e che avevamo diritto a quindici chili di bagaglio. E dunque, Viktor caro, anch’io ho radunato le mie cose. Ho preso il cuscino, un po’ di biancheria, la tazza che mi avevi regalato tu, un cucchiaio, un coltello, due piatti. Si ha bisogno d’altro, forse?”

Ora gli attori, spogliati di tutto, sono ombre, si disperdono, si rannicchiano nei diversi angoli della sala: ognuno chiuso nella solitudine che precede una morte per sfinimento.

A rappresentazione conclusa, a sciogliere la commozione arrivano le spiegazioni dei professori e dei ragazzi.

Osservo i volti dei giovani mentre ascoltano le nostre domande sul percorso compiuto.

Mi colpiscono le risposte semplici ma chiare, la consapevolezza, la partecipazione intellettiva ed emotiva. Hanno sfiorato le pagine di uno dei libri più potenti del secolo scorso, “Vita e destino” di Vasilij Grossman, il testo che custodisce la lettera della madre a Viktor.

Sono certa che non dimenticheranno tanto presto le parole con cui la madre chiude la lettera: “Viktor mio caro, è l’ultima riga dell’ultima lettera che ti scrive tua madre. Vivi, vivi per sempre”.

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