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Presente storico

IL FILM DELLA TRAGEDIA

ENZO R. LAFORGIA - 08/02/2019

Il Palace Hotel. Dall’album di Luca Segato su Flickr

Il Palace Hotel. Dall’album di Luca Segato su Flickr

«Ma guarda chi si vede! Sei proprio tu, vecchia funicolare, animalone letargico dal colore indefinito? Gli uomini, quest’anno, ti hanno svegliata dal tuo sonno invernale che durava mesi e mesi avvolta com’eri in quel grande telone che dalla testa ti scendeva agli zoccoli d’acciaio! Non mi sembri scossa per questa tua attività fuori stagione: anzi, mi sembri allegra! Ti ricordo quand’ero ancora ragazzino quando, passandoti accanto nei primi giorni d’autunno, ti trovavo già rimbaccucata in quel grande scialle di tela, silenziosa e composta come una vecchia dama ottocentesca.»

Così il giornalista Mino Tenaglia si rivolgeva alla funicolare che portava al Colle Campigli. È questo un breve estratto di un lungo articolo pubblicato sulla «Cronaca Prealpina» il 14 marzo del 1941. A quella data, l’Hotel Palace non era più meta di villeggiature signorili ed eleganti soggiorni. Tra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo, treni-ospedale aveva iniziato a trasferire a Varese diverse centinaia di soldati feriti sul fronte greco. Per la loro accoglienza e la loro cura, il vecchio Hotel Palace, diventato negli anni dell’autarchia linguistica Albergo Palazzo, era stato trasformato in un ospedale militare. La vecchia funicolare aveva ripreso a funzionare, ma questa volta per portare in cima al colle medici, infermieri e visitatori. Qual luogo destinato allo svago e alla spensieratezza si era trasformato in luogo di sofferenza e di cura.

«Attendo nel grande vestibolo – continuava Mino Tenaglia – che in tempi meno austeri, mi era apparso bello per i suoi tappeti, per il suo mobilio, per quel suo grande piano a coda che incorniciava con la sua musica la signorilità del luogo nelle sere d’estate di un recente passato. Ora, però, mi sembra migliore nella sua spoglia severità, nel fruscio lieve delle vesti monacali, nel frullare candido dei cappucci crociati di rosso, dal passo chiodato dei soldati di guardia.»

Il giornalista varesino ritornò a far visita all’Ospedale militare anche nei mesi successivi. Si intrattenne con il direttore, il maggiore Antonino Dondero; osservò i segni lasciati dalla guerra sui corpi dei soldati (dalle ferite superficiali, a quelle più profonde; dalle febbri malariche, alle fratture, al congelamento degli arti); visitò la sala chirurgica e il gabinetto di radiologia; lanciò pubbliche sottoscrizioni per dotare quel luogo delle apparecchiature necessarie per affrontare la cura dei feriti. L’Ospedale divenne meta anche di scolaresche, che recavano ai degenti la solidarietà dei varesini. Tra i numerosi visitatori, il giornalista annotò anche, in uno degli articoli successivi a quello citato in apertura, la presenza di due operatori cinematografici. Come spiegò in maggio dalle pagine del giornale, quel luogo avrebbe fatto da sfondo ad un cortometraggio.

Fu il giornale «Luce!» a fornire in novembre qualche informazione in più: «Animati da ardente sentimento patriottico e da profonda fraterna pietà, alcuni nostri concittadini si sono voluti improvvisare artisti cinematografici e con scarse risorse e minimi mezzi ma con cuore grande e generoso sono riusciti a mettere insieme la trama di un film che intende esaltare in uno con la fede e le bellezze della nostra città, l’eroismo dei nostri valorosi e cari feriti di guerra».

Artefici dell’ambizioso progetto furono i giornalisti della «Cronaca Prealpina» Mino Tenaglia e Alberto Ambrosini, coadiuvati dall’operatore Franco Valtorta e dal Maestro Ettore Lombardi, autore dell’accompagnamento musicale. Il film, intitolato ovviamente Colle Campigli, fu ideato, sceneggiato e diretto proprio da Tenaglia. La trama era esile, ma condita da un’interessante rassegna delle bellezze del paesaggio varesino e dalla celebrazione delle recenti realizzazioni del fascismo. I circa duemila metri di pellicola in 16mm. (per una durata di oltre due ore di proiezione) prendevano il via dal discorso del duce del 10 giugno 1940, per poi proseguire con la descrizione della partenza di soldati, che gioiosamente correvano verso la guerra. Tra questi vi è un giovane alpino della Val Veddasca, che, salutata l’anziana madre, si allontana dal suo piccolo centro. Farà ritorno nella sua terra dopo essere stato ferito in combattimento ed essere ricoverato all’Ospedale Colle Campigli. Dopo la guarigione, riprenderà la strada verso nuovi campi di battaglia.

Il film, interpretato da attori non professionisti, fu proiettato nel gennaio del 1942 alla presenza delle autorità cittadine e provinciali, del generale Gozzi, Capo della Sanità di Milano, dei maggiori Dondero e Gennarini, direttori degli ospedali militari di Varese, del gruppo nazista locale e di una nutrita rappresentanza dei feriti ospitati in città. L’incasso ricavato dalle proiezioni sarebbe stato versato all’Ospedale. Ironia della sorte, proprio quando l’andamento delle operazioni militari su tutti i fronti in cui era impegnato l’esercito italiano mostrava l’incapacità strategica e la miopia politica di chi era stato artefice di quel fallimento e di quella tragedia, il racconto centrato sulle ferite della guerra, anziché sulle azioni eroiche e gloriose o sui suoi effetti miracolosi, veniva presentato in un cinema il cui nome sembrava una cinica presa in giro: Vittoria.

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