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Economia

CHE CRISI

GIANFRANCO FABI - 08/02/2019

pilI dati sono ormai ufficiali: negli ultimi due trimestri dello scorso anno il prodotto interno lordo è diminuito, dello 0,1% nel terzo, dello 0,2% nel quarto trimestre. Poca cosa, si potrebbe dire, anche se si parla di recessione. Ma l’importante, per valutare lo stato dell’economia italiana, non è tanto la lunghezza del piccolo passo indietro, ma la tendenza di fondo, una tendenza che sembra portare l’Italia verso nuovi e più gravi problemi.

Innanzitutto perché le cifre negative rischiano di innestare un circolo vizioso: meno produzione vuol dire meno ricavi per le imprese, meno redditi per i lavoratori, meno consumi e meno investimenti. Il passo indietro può essere piccolo, ma in una direzione sbagliata in cui i fattori negativi possono facilmente moltiplicarsi.

C’è poi un problema del tutto particolare: le politiche economiche che il Governo ha intenzione di mettere in atto rispondono alla necessità di riavviare un ciclo positivo nell’economia?

Bisogna riconoscere che le responsabilità delle attuali difficoltà vengono da lontano e sarebbe ingeneroso dare tutta la colpa a chi governa il paese dal maggio scorso. La frenata ha riguardato infatti praticamente tutti i paesi europei, ma con una differenza: in Germania e Francia c’è stato un rallentamento, ma solo in Italia si è passati in zona negativa. In una prospettiva internazionale infatti non sono mancati e non mancano i fattori di crisi: il conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina, l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, le incertezze legate all’esito del prossimo rinnovo del Parlamento europeo, la crisi irrisolvibile del Medio Oriente, sono tutti elementi che hanno portato ad una frenata sia del commercio internazionale, sia dei consumi interni del singoli paesi.

L’Italia non può che risentire di queste difficoltà soprattutto sul fronte di quello che è stato il traino della crescita economica degli ultimi anni e cioè le esportazioni. Se cala la produzione di auto tedesche sul mercato americano o cinese dobbiamo ricordare che dal 30 al 40% del valore di queste auto dipende dalla componentistica italiana. Soprattutto nell’area prealpina tra Varese e Brescia non sono poche le industrie che forniscono accessori, telai, scocche, freni per Bmw o Mercedes.

Ma alle cause internazionali l’Italia ha aggiunto elementi del tutto particolari negli ultimi mesi. Innanzitutto il blocco degli investimenti nelle grandi opere pubbliche come la linea ad alta velocità tra Torino e Lione, investimenti che peraltro sarebbero in parte finanziati dall’Unione europea e che garantirebbero migliaia di posti di lavoro. Poi c’è stata la stretta sui contratti a tempo determinato attraverso il cosiddetto “decreto dignità “ che ha fatto aumentare, di poco, i posti fissi, ma ha fatto diminuire in maniera sensibile quelli temporanei.

Sullo sfondo tuttavia alla nuova maggioranza di Governo si deve attribuire il calo complessivo di fiducia verso l’economia italiana, sia sul fronte interno, sia su quello internazionale. Lo dimostra la crescita dei tassi di interesse (il fatidico spread) che ha aumentato gli oneri per il debito pubblico e ha reso più difficili e costosi i prestiti verso le imprese. Le velleitarie affermazioni sulla possibile (per alcuni addirittura auspicabile) uscita dall’euro hanno provocato una fuga di capitali e una drastica riduzione degli investimenti esteri verso il nostro paese. Il calo della Borsa e la diminuzione del valore dei titoli pubblici hanno portato ad una perdita di valore di oltre 50 miliardi per le famiglie e le imprese italiane.

E allora torniamo alla domanda: coloro che hanno provocato questi problemi possano essere in grado di avviare una nuova politica espansiva? Sugli investimenti, che sarebbero il punto più importante per sollecitare la ripresa, l’orizzonte resta nebbioso con lo scontro aperto tra i due partiti di maggioranza sulla continuazione delle grandi opere.

Per i consumi qualcosa potrà muoversi con i due provvedimenti simbolo del Governo giallo-verde, il reddito di cittadinanza e la quota 100 per andare in pensione. Il primo porterà indubbiamente ad una iniezione di liquidità che darà una spinta ai consumi, ma per il 30/40% si tratterà di consumi di prodotti importati il che vorrà dire che creeremo lavoro in altri paesi. Il secondo intervento porterà invece ad una diminuzione dei redditi di coloro che sceglieranno di andare in pensione perché avranno un rendita tra il 60 e il 70% del salario precedente. E è probabile che molti lavoratori in uscita non saranno sostituiti perché prevarrà nelle imprese la volontà di ridurre i costi e di automatizzare i processi.

Complessivamente i due interventi potranno far crescere il Pil nella seconda parte dell’anno tra lo 0,2 e lo 0,3% anche perché ci vorrà tempo perché gli eventuali maggiori redditi si trasformino in nuovi consumi e i nuovi consumi in maggiore produzione.

Stando così le cose le prospettive restano negative, almeno per tutto il 2019, e la ripresa un’illusione. A meno di un drastico cambiamento della politica economica: accelerazione e non più rinvii per le grandi opere, abbandono dei velleitari scontri con l’Europa, ritorno ad una politica di sostegno all’innovazione e alla competitività delle imprese.

Ma è difficile che il Governo faccia gli auspicabili passi indietro sulle proprie scelte in questo complesso clima elettorale. Molto più facile dare la colpa agli altri, ai governi di prima o alle politiche degli altri paesi. E se proprio non si vorrà ammettere le proprie colpe si farà come don Ferrante nei Promessi sposi e si darà la colpa alla congiunzione tra Giove e Saturno.

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