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Pensare il Futuro

CLIMA: ALLARME ROSSO

MARIO AGOSTINELLI - 15/02/2019

climaLa scomoda verità sul clima è che la sete di petrolio cresce

In America, la più grande economia del mondo e più grande inquinatore dopo la Cina, il cambiamento climatico sta diventando difficile da ignorare. Eventi estremi sono diventati più frequenti. A novembre gli incendi boschivi hanno bruciato la California; la settimana scorsa Chicago era più fredda di molte zone di Marte.

Gli scienziati stanno dando l’allarme e la gente ha notato che il 73% degli americani intervistati dalla Yale University alla fine dello scorso anno ha affermato che il cambiamento climatico è palpabile.

Mentre le aspettative cambiano, il settore privato mostra segni di adattamento. L’anno scorso sono state chiuse circa 20 miniere di carbone. I gestori di fondi stanno incoraggiando le aziende a diventare più verdi.

Eppure, tra il clamore c’è una sola, stridente verità. La domanda di petrolio sta aumentando e l’industria energetica, in America e nel mondo, sta pianificando investimenti multimiliardari per soddisfarlo.

Nessuna impresa incarna questa strategia meglio di ExxonMobil, il gigante che i rivali ammirano e gli attivisti verdi odiano, da quando ha deciso di pompare il 25% in più di petrolio e gas nel 2025 rispetto al 2017. Anche se il resto del settore perseguisse una crescita modesta, le conseguenze per il clima potrebbero essere disastrose.

In sintesi, la domanda di petrolio è in aumento e l’industria energetica, in America e in tutto il mondo, pianifica investimenti di migliaia di miliardi per soddisfarla. Alla faccia degli scienziati dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) che predicano di tagliare la produzione fossile del 20% entro il 2030 e del 55% entro il 2050! Il caso ExxonMobil dimostra che il mercato non può risolvere il problema del cambiamento climatico da solo.

Un’azione forte e decisa dei governi è necessaria. Prendersela soltanto con le aziende sarebbe però troppo comodo, perché stanno soltanto rispondendo a incentivi che arrivano dalla società.

Ogni anno ciascun abitante in Europa si vede prelevare mediamente 600 € per il sostegno a petrolio, gas, carbone. Inutile confidare nella tecnologia come riparatore a posteriore dei danni inferti all’atmosfera o nei tribunali che chiedano risarcimenti quando gli eventi climatici mineranno anche la salute delle popolazioni e costringeranno a emigrare non solo a Sud del mediterraneo.

Toccherà alla politica, ossia agli elettori. Per convincerli bisognerà dimostrare che si possono tagliare le emissioni senza far pagare loro un prezzo troppo salato. Una carbon tax resta la strada migliore.

Ma la protesta dei gilet gialli dimostra quanto possa essere impervia. Se quella tassa venisse però compensata da esenzioni fiscali su altri fronti, chissà. Penso che una soluzione sarebbe quella per cui alle compagnie che operano nel campo dei combustibili fossili verrebbe addebitata una “tassa sul carbonio” (per tonnellata di CO2 emessa) imposta alla sorgente, al pozzo minerario o al punto d’ingresso del processo attivato dal carburante.

L’ammontare del prelievo risulterebbe neutrale rispetto al bilancio statale perché, una volta incassato, sarebbe ridistribuito per intero come dividendo su base pro capite alla popolazione che paga le tasse.

Le somme verrebbero erogate sia a imprese che si occupano di efficienza energetica e energie rinnovabili, ma, soprattutto, finirebbero nelle tasche dei contribuenti “con minore impronta ecologica”. Si avrebbero effetti redistributivi verso la popolazione più indigente e sobria a risultato di profitti ridotti dei grandi inquinatori.

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