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Editoriale

VELLUTI

MASSIMO LODI - 22/02/2019

montecitorioC’era una volta un movimento, gli è succeduto un partito. Uguale agli altri partiti. Stesse regole, medesimi comportamenti, analoghe contraddizioni. Non esistono più i Cinquestelle delle origini, sacrificati allo stellone, uno solo, del potere. Ecco, il potere. Aveva (ha sempre) ragione Andreotti: logora chi non ce l’ha. Il quale fa di tutto per conquistarlo, e in seguito di tutto per non smarrirlo: è la metamorfosi governista. Qualunque sia il prezzo da pagare, e figuriamoci se si tratta di un prezzo d’ideali: li si usa, gl’ideali, allo scopo di raccogliere il consenso necessario a vincere, poi li si accantona se sussiste il rischio di perdere. Che cosa? Le poltrone. I loro velluti esercitano un irresistibile fascino sui titolari delle insediate terga. Tanto da indurli a cancellare la memoria. E a rimuovere, nello specifico caso, il motto storico/leggendario: non più uno vale uno, ma uno vale più di tanti altri. Si chiama democrazia diretta: dall’alto. Anche se la si vuol far figurare generata dal basso, tramite consultazioni on line di capziosa opportunità, scarsa partecipazione, discutibile risultato.

Anche stavolta la rivoluzione è rimandata. Un classico all’italiana. Si nasce incendiari, si muore pompieri. Lasciando dietro di sé macerie fumanti, elettori delusi, un Paese –è la situazione d’oggi- alle soglie della rovina economica, come indica la produzione industriale di dicembre, crollata del 7,3 per cento: il dato peggiore da dieci anni a questa parte. E infatti il premier Conte e il ministro dell’Economia Tria meditano su una possibile manovra-bis se la crescita nel 2019 sarà inferiore allo 0,6 per cento. E lo sarà, purtroppo. Altro che anno bellissimo, nuovo boom italiano, scomparsa della povertà. Gl’imprenditori ne sono sicuri: il loro leader, Boccia, rilancia l’allarme di giorno in giorno. Non lo ascoltano: fino a quando? Fino al post voto europeo, per ovvio interesse demagogico. Prepariamoci a tagli su sanità, scuola, trasporti. Al probabile aumento dell’Iva, a una possibile patrimoniale.

La sorte del governo appare incerta. Il salvataggio di Salvini avrà un costo, e i ribelli dello spaccatissimo M5S chiedono a Di Maio d’esigerlo. Cioè? Niente Tav e niente autonomia alle regioni che l’hanno richiesta. Per ora. Ma il ministro degl’Interni tiene in mano una carta di cui è sprovvisto il partner-rivale: la crescita del favore popolare. Se le elezioni in Sardegna confermeranno il verdetto d’Abruzzo, e idem quelle in Basilicata e le europee, al capo grillino egli porrà un aut aut: o ti adegui alla nostra guida o torniamo a votare. E tornandovi, io prendo quasi il doppio di un anno fa, tu poco più della metà.

Che cosa deciderà il popolo, eventualmente orfano del populista Di Maio? Molti si aggregheranno alla già imponente moltitudine degli astenuti, molti s’inchineranno alla seduzione dell’uomo forte/felpato, molti guarderanno a sinistra e faticheranno a intravedere riconoscibili sagome d’antisovranismo. La sinistra, appunto. Quanto tempo buttato via, quanti assurdi litigi, quanta penuria di lungimiranza. Questo era il momento d’essere pronti con un leader autorevole e inclusivo, un partito di pragmatica opposizione, un’appetibile spendibilità sul mercato elettorale. Invece non lo si è ancora, e il silenzioso tifo va paradossalmente al sostegno di quest’avventura di governo anziché al suo spegnersi. Perché la ricostruzione richiede assai più tempo della rottamazione.

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