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Noterelle

NO PELANDRONE

EMILIO CORBETTA - 01/03/2019

esteroRelata refero da un non pelandrone

Faccio parte di quella massa di “pelandroni” che hanno abbandonato le terre dove sono nati, di quelli che sono andati via per poca voglia di lavorare, di fare. Di quelli che non hanno voluto stare nel luogo dove la madre li ha partoriti, come invece avremmo dovuto fare secondo Salvini che ci ha quasi considerati una massa di traditori: ognuno deve stare fermo nel luogo d’origine.

Sono un ragazzo nato in Italia nel periodo di forte natalità, gli anni che vennero definiti “del boom dei bambini”. Ora vivo all’estero da tanti anni. Secondo il mio parroco, a Casbeno nascevano tanti bimbi quanti nel milleseicento. Lo sapeva perché amava consultare gli antichi registri della parrocchia che lui continuava ad aggiornare: diari di nati, deceduti, sposati, con l’aggiunta di altri eventi importanti della comunità che faceva riferimento alla sua chiesa. I nostri venivano anche chiamati “gli anni del 68″, gli “anni della contestazione” ma i bambini che nascevano tra una contestazione e l’altra restavano vivi, mentre nel 600 in una settimana quasi tutti morivano: la mancanza d’igiene, la miseria, gli stenti d’allora erano alla base della strage. Le popolane erano sempre incinte e nella loro vita affrontavano un numero incredibile di gravidanze. Anch’esse avevano vita breve, molto breve: si moriva di parto o per le complicanze dello stesso o per le infezioni conseguenti in esseri stremati dalle fatiche e dalla fame. Esseri in cui non c’era la forza di vivere interamente il parto. È circa in quegli anni che a Parigi fu inventato il forcipe, che allora era di vimini. Poi le drammatiche pestilenze che falciavano le popolazioni, come ci racconta Manzoni nei suoi “Promessi Sposi”, e come, con molta meno poesia, l’hanno raccontato i nostri parroci.

Da Varese mi dicono che la definizione “il mio parroco” non ha più contenuto. Ora più parrocchie sono unite in un’unica comunità pastorale, per cui i fedeli faticano a trovare una figura di riferimento con cui vivere “cammini spirituali”, nonostante l’impegno dei sacerdoti. Non è che non sia più di moda credere: la fede viene vissuta in modo diverso, da un numero certo minore di fedeli, ma forse con maggior profondità, come qui in America, dove son pochi quelli che non fanno la Comunione alle Messe.

Quando torno a Varese fatico a ritrovare i riferimenti lasciati quando sono partito per frequentare l’Università negli Stati Uniti. Varese sembrava una città più popolosa, più ricca di negozi diciamo “specializzati”, c’erano più famiglie residenti in città, meno auto, meno uffici, con necessità maggiore di abitazioni e strade più vissute. A Varese stava nascendo l’Università. L’Ospedale aveva più di milleduecento letti. In città e nei dintorni c’erano più fabbriche, più posti di lavoro, più edilizia. Nelle vie, come detto, più gente in giro, e sempre numerosi gli studenti che nelle ore dette di punta l’attraversavano. Ora questa città che amo mi va “stretta”, ma non solo a me: dei miei vecchi compagni di liceo son pochi quelli che lavorano in città.

La popolazione che riempiva le strade era più “bosina”, decisamente meno internazionale e i “forestieri” che incontravi erano qui per “lavoro”, ospiti delle varie ditte che ora sono uscite dai confini piccoli della nostra città. Sono andate addirittura anche all’estero, via dall’Italia.

Perché andare negli “States” per fare l’università? Avevo cominciato da poco il Ginnasio (si chiamava ancora così) e avevo sentito e letto che se avevi i numeri e tanta volontà lì avresti potuto fare una certa carriera di studi, di ricerca, in modo diverso che in Italia. Dovevi lavorare tantissimo ma i tuoi meriti sarebbero stati rispettati. Ti sarebbero stati imposti programmi severi, un numero notevole di pubblicazioni, conferenze, partecipazione a congressi, ore di studio. Avresti dovuto fare corsi programmati ufficialmente, ma anche tanti complementari, con insegnanti sempre a tua disposizione.

Posso assicurare che è straziante andar via dalla tua terra, dagli affetti, specialmente per noi latini, in cui è profondo il senso della famiglia, per andare lontano in realtà nuove ed in definitiva ignote. Lasci abitudini, lasci il tuo sole, i tuoi paesaggi, lasci la cultura in cui sei nato e vai dove la tua vocazione ti porta perché quel che desideri essere, desideri fare, desideri capire, studiare, approfondire, sapere non puoi ottenerlo dove sei nato. La tua “vocazione” non ha spazio lì. Ma Salvini, e con lui molti altri, questo lo capiscono?

Penso più doloroso, straziante, sanguinante dover andar via perché la tua foresta, la natura lussureggiante dove sei nato per te non ha cibo, per te ha solo germi di grande dolore se non addirittura di morte. Vai via perché crepitano le armi, perché c’è odio stupido, credenze ingiuste, ignoranze immense, miseria ineluttabile che minaccia di toglierti la vita ad ogni momento. Sai che andrai in mezzo a stranieri, che avrai grandi difficoltà, ma la realtà che hai visto in TV al villaggio sembra più allettante, più dorata, più generosa di quella che lasci. Vai via giocando una scommessa, cercando un luogo dove pensi ci sia un filo maggiore di speranza.

Non vai via dalla tua terra, dalla tua cultura perché sei un “pelandrone”, un ladro, uno stupratore come ha gridato e grida quel Salvini lì, desideroso di far diventare sempre più grandi, immense, insuperabili, le paure, i timori, le innate preoccupazioni che i semplici, un po’ lontani dal sapere, hanno dentro.

Ammettiamo che tu sia andato via per motivi solo economici, cioè “miseria”, e non per “non morire ammazzato”, ma quello lì sa cosa vuol dire la fame? Questa assenza di alimenti, assenza di acqua, di medicine, di vestiti, la conosce quello lì? Lo sa che siamo in tanti a patire? A vivere di stenti? Ripiegati nella rassegnazione? Perché non vuole che io cerchi di non morire rassegnato ma al peggio morire con speranza? E vengo, conscio di subire “il razzismo di ieri e soprattutto di oggi, potente macchina del consenso” (Zanotelli), ma là da dove vengo c’è troppo dolore, troppa miseria, come quella che c’era qui nel ‘600.

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