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Società

LAVORO: CRISI E DRAMMA

FELICE MAGNANI - 15/03/2019

lavoroLa crisi del mondo del lavoro è il vero, grande dramma del momento, un dramma che cova da tempo e che chiama in causa una società che fatica moltissimo a trovare un equilibrio. Trovare un equilibrio non è un’impresa facile, richiede una straordinaria maturità e soprattutto la capacità di entrare in sintonia con l’altro, mettendo da parte pregiudizi, presunzioni, egocentrismi, primati, successioni, esagerate ambizioni.

 Chi cerca l’equilibrio deve compiere un grande lavoro di rivisitazione su se stesso, per capire quale sia il punto in cui la democrazia diventi reale, si riconosca, si definisca e si prepari a entrare definitivamente nel cuore e nella mente di una società che attende.

 Per la costruzione di una solida democrazia individuale e collettiva il lavoro riveste un’importanza fondamentale, perché aiuta a prendere coscienza della realtà, a capire chi siamo, il ruolo che abbiamo, l’energia di cui disponiamo, ci aiuta a comprendere sempre un pochino di più il grande valore della vita.

 Chi non lavora non vive, è privato della sua umanità. Chi ha avuto la sfortuna di non trovare lavoro in questi anni o di perderlo o di viverlo male, è consapevole di quanto sia importante nella vita delle persone, delle famiglie e in quella della società. Per questo va fatto amare.

 Potrebbe sembrare eccessivo parlare di amore, ma se non lo ami con tutto te stesso difficilmente diventa il centro della tua vita, resta un freddo strumento di qualificazione materiale che consente di sopravvivere. Nel lavoro c’è infatti molto di più, c’è l’anima delle persone, la voglia di fare, di crescere, di essere, di arrivare, il sogno e la realtà, l’immaginazione e la fantasia, l’umanità e l’osservanza, la felicità e la passione, l’entusiasmo e la tranquillità morale, il senso dell’appartenenza e della convivialità, la sofferenza e la soddisfazione.

 Con il lavoro l’essere umano si forma e forma la realtà che incontra, riassume e sintetizza la storia del mondo e il suo esserne parte integrante. Sono stati pochissimi quelli che ce lo hanno fatto conoscere e amare sul serio, molti di più quelli che ce lo hanno dipinto come una mannaia che incombe, che non dà tregua, che può colpire da un momento all’altro o come una condanna da espiare giorno per giorno.

 Chi ha capito il senso vero e profondo del lavoro non ne può fare a meno, non solo per una ragione di carattere puramente materiale, ma soprattutto per una ragione morale. Il lavoro, se fatto con passione, genera gioia, serenità, soddisfazione, anima le parti più recondite, quelle che spesso vengono lasciate soccombere nelle penombre della vita interiore.

 Esiste uno stretto rapporto tra mondo interiore e mondo del lavoro, tra moralità e lavoro, gioia di vivere e lavoro, onestà e lavoro, lealtà e lavoro. Nel dinamismo il lavoro esercita uno stato d’animo, si affranca dagl’ingombri inutili, si appropria di nuove convinzioni, allerta la capacità di fare, creare, vivere, sognare.

 Fuori dalla coercizione dogmatica, dall’assolutismo delle imposizioni, dalle tirannie ideologiche e da varie forme di costrizione, diventa il perno attorno al quale l’uomo costruisce la propria vita.

 Certo il lavoro va insegnato e vissuto con passione, cosa non facile, soprattutto quando non è quello che ci aspettiamo, quello che crea entusiasmo, gioia di vivere, quello che ti fa sentire realizzato, mettendoti in perfetta sintonia con te stesso e con la collettività.

 Le colpe di questa discrasia vanno ricercate in una visione classista, dove da una parte c’è chi comanda e dall’altra chi deve obbedire, come se la costruzione democratica dipendesse solo da una parte, quella eletta.

 Le grandi lotte sono state il simbolo di un’incapacità di fondo, soprattutto da parte di chi avrebbe dovuto insegnare l’arte di apprendere, di vivere bene e di realizzare, senza l’avvilente condizione di costrizioni irriverenti e di subalternità oppressive.

 Per troppo tempo il lavoro ha sottratto l’umanità alle persone, costringendole a negare la propria identità, a piegare la propria dignità a dover essere quello che nessuno avrebbe mai voluto, ha impedito agli esseri umani di sentirsi prima di tutto umani, capaci di amare e di sognare, di gioire e di fraternizzare, trasformandoli in oggetti subordinati a un’idea o a una volontà dominante. In molti casi il mondo del lavoro ha trovato difensori e propulsori, ma non si è fermato abbastanza a riflettere sulla realtà della condizione umana, l’ha sottovalutata e in certi momenti persino sopravvalutata, ha così impedito che i lavoratori potessero addivenire a una coscienza collettiva fondata sulla cultura del lavoro, su quella parte in cui l’aspetto etico occupa un ruolo fondamentale.

 Il lavoro è stato visto nella sua luce costituzionale, ma come ogni principio attivo avrebbe avuto bisogno di maggiori approfondimenti, di attenzioni e di riflessioni sul tema della centralità umana, della sua forza propulsiva, della sua capacità di rendere giustizia al valore e al merito, all’impegno e alla competenza, alla passione e alla determinazione.

 In molti casi lo si è difeso quando era indifendibile, dopo che era stato abbandonato per troppo tempo al suo destino, impedendo così che potesse assumere quella dignità che si sarebbe meritato.

 Chi è stato per molti anni nel mondo del lavoro ne conosce a fondo i problemi, i lati oscuri e quelli luminosi, conosce soprattutto la superficialità con cui spesso è stato trattato, sa perfettamente di cosa abbia bisogno per essere davvero all’altezza della persona e della collettività.

 C’è una stupenda frase dell’arcivescovo Montini, riportata da Lorenzo Cantù nel libro, Lavoro ed Economia in G.B. Montini Arcivescovo di Milano, in cui il prelato afferma: “Fratelli per una stessa fede, cittadini d’una stessa patria, operatori per uno stesso lavoro, imprenditori ed esecutori devono saper risolvere la diversità di interessi economici in una soluzione di equità e di giustizia che li faccia collaboratori e alla fine amici, come qui mi pare felicemente di osservare”. Una frase che vale un commento, in cui risulta in modo chiaro quale sia il segreto di una felice connessione tra contraenti diversi, ma fraternamente uniti.

 In molti casi l’unione non c’è stata, la politica ha diviso dove ci sarebbe stato un grande bisogno di collaborazione e di unità, dove anche la libertà avrebbe voluto la sua parte, una parte riservata alla volontà di chi opera con entusiasmo, senza pregiudizi e preclusioni, con l’animo di chi crede nella natura espansiva di una libertà democraticamente guidata e orientata.

Di che cosa avrebbe bisogno il mondo del lavoro oggi? Di una grandissima fiducia da parte delle Istituzioni, di potersi realizzare fuori da un sistema burocratico asfittico e coercitivo, di incontrare il totale appoggio di una politica che guardi meno alla parte di comodo e molto di più al bene delle famiglie e a quello dei singoli, un mondo del lavoro in cui tutte le forze in campo collaborino in modo stretto e leale per costruire la città dell’uomo a misura del cittadino che la abita.

Dunque un mondo del lavoro meno vincolato ai formalismi, più attento ai bisogni e alle necessità, meno dipendente e più autonomo, meno sfruttato e più stimolato alla realizzazione di una reale felicità terrena, un mondo del lavoro che sappia rendere merito, che aiuti l’uomo a ritrovare se stesso, a esprimere quello che realmente vale, che sappia stimare, aiutare, premiare, difendere, promuovere, animare. Farlo uscire dai giochi impietosi di una complessità che spesso non viene soppesata, affrancarlo dai giochi di una politica che in molti casi non sa vedere più in là del proprio naso, restituirlo alla libertà personale, proporlo e insegnarlo in famiglia, nelle scuole, negli oratori e in tutti quegli ambiti in cui sia possibile stabilire relazioni e rapporti interpersonali validi, attrezzando le persone in modo tale che si sentano parte in causa, protagoniste di una storia che le vuole collaborative e disponibili per la costruzione di una vita migliore.

Il lavoro non crea divisioni, non mette gli uni contro gli altri, non allerta vie di fuga o negazionismi esacerbati, sollecita l’uomo a fare, a vivere, a collaborare, perché il presente sia sempre un pochino migliore e più attento ai problemi di una condizione umana troppo spesso abbandonata al proprio destino.

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