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Stili di Vita

CREDIBILITÀ KAPUTT

VALERIO CRUGNOLA - 15/03/2019

crescitaTre grandi processi hanno eroso il collante tra liberalismo e democrazia: i mutamenti nell’economia globale; i social media; la transizione a stati multietnici. Il congiungersi dei loro effetti genera un deficit destabilizzante nel grado sia di liberalismo che di democrazia.

1) Per millenni lo sviluppo economico è stato impercettibile. La frattura intervenuta con la rivoluzione industriale ha esteso le risorse a un numero crescente di persone. Stando al coefficiente di Gini e agli studi di Piketty, dapprima lo sviluppo allargò la forbice delle diseguaglianze, ma già nel 1960 si era alquanto ristretta. Il connubio tra crescita e redistribuzione è entrato in crisi sin dagli anni ’80. Da allora il progresso economico nelle società avanzate ha subito un crescente rallentamento. In termini assoluti il PIL globale è aumentato di poco e la povertà, i dislivelli di reddito, l’analfabetismo e il tasso di mortalità si sono ridotti. Ma ad un esame più attento la crescita ha investito un numero limitato di paesi, lasciando indietro alcuni paesi ricchi e quelli più poveri. La crescita è rallentata e la disuguaglianza tra i segmenti della società si è allargata quasi ovunque: nei paesi stagnanti dell’Occidente sviluppato, in quelli più dinamici dei Sud del mondo e nelle aree più povere. Si sono formate isole di privilegio per fasce ristrette di popolazione, circondate da enormi sacche di marginalità sociale e culturale. La classe media, perno del successo di massa della sintesi tra liberalismo e democrazia, ha faticato a mantenere i livelli di reddito acquisiti. La grande maggioranza dei giovani non raggiunge i traguardi conseguiti dai genitori alla medesima età. Il restringersi degli ascensori sociali e la diffusione delle diseguaglianze, congiunte ai disastri ambientali (che impoveriscono tutti), hanno superato ogni limite di tollerabilità e ogni accettabile soglia di pericolo. I sentimenti pubblici sono pervasi di frustrazione, disillusione e disincanto politico. Gli elettori, disorientati e privi di rappresentanza, inclinano a cercare alternative estreme. La demagogia populista lucra dando fuoco a inneschi intrisi di benzina e fa presa soprattutto tra chi si sente danneggiato dall’automazione e altre innovazioni tecnologiche ed è colto da un’ansia economica per il presente e per il futuro.

La globalizzazione, l’automazione, la terziarizzazione, la digitalizzazione e le nuove economie di scala spiegano questo mutamento epocale. Là dove un tempo l’aumento degli standard di vita coincideva con la speranza in un futuro migliore, oggi in quasi tutti i paesi del mondo «i cittadini si tengono a malapena a galla, e temono di dover affrontare avversità ancor peggiori in futuro». Lo scarseggiare di molte risorse (incluse le finanze pubbliche) complica molte cose. Il contraccolpo politico ed emotivo è stato lento ma ora è forte e prepotente: c’è ansia per il futuro e rifiuto per il passato (ambedue i sentimenti hanno parziali giustificazioni). La politica è vissuta come “gioco a somma zero”. «Quando la crescita economica è rapida, vincono tutti. I ricchi e i poveri avranno anche interessi contrastanti, ma la lotta distributiva riguarda un surplus abbondante. Non bisogna chiedersi se qualcuno perderà qualcosa, ma piuttosto quanto ci guadagnerà». Se la crescita economica è lenta, la competizione per le risorse si fa più spietata. «Se vogliono aumentare il loro patrimonio, i ricchi devono sottrarre qualcosa ai poveri». «Via via che la crescita si è fermata, la disuguaglianza è cresciuta e l’ansia è aumentata, un’ampia fetta di della popolazione ha smesso di concentrarsi sul valore dell’autorealizzazione».

«Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o l’Italia sono ancora incredibilmente ricchi. Mai nella storia dell’uomo le società sono riuscite a garantire una tale abbondanza a un numero così elevato di persone. Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra è che quegli stessi paesi non sono più in grado di offrire ai cittadini un vero senso di crescita. Pur essendo ancora benestanti, le loro aspettative di miglioramento materiale sono state distrutte, e hanno buone ragioni di temere che il futuro porti notizie ancora più nefaste». «Non abbiamo un precedente storico che ci aiuti a prevedere le conseguenze che la ricchezza senza crescita potrebbe avere sulle dinamiche politiche della democrazia liberale».

2) In cinque secoli l’introduzione delle tecniche a stampa ha esteso la comunicazione «uno a molti», ha consentito la circolazione, a costi sempre più bassi, delle idee e delle conoscenze e una crescente alfabetizzazione. Al pluralismo delle fonti ha corrisposto un numero più elevato e altrettanto plurale di destinatari. Il cittadino aveva limitate possibilità di far sentire, o illudersi di far sentire, la propria voce. L’opinione pubblica, benché articolata, era bidirezionale solo grazie a forze organizzate come partiti, sindacati e associazioni. Indebolita dai grandi oligopoli (non importa se governativi o privati), l’opinione pubblica si è arresa all’avvento del web. Sino ad ora i media tradizionali di prima (stampa) e di seconda generazione (radio e tv), hanno tutelato il pluralismo, emarginato gli estremismi sul piano culturale, rafforzato i valori condivisi e permesso alla politica di mantenere un’impronta consensuale. Nel contempo la società di massa ha facilitato tragiche radicalizzazioni, come la diffusione dei totalitarismi di destra e di sinistra dimostra.

Il web ha esteso la comunicazione «uno a molti» fino a snaturarla, sostituendola con quella «molti a molti». «Gli attori più grandi hanno perso buona parte della loro capacità di controllare la diffusione di idee e messaggi che hanno un impatto emotivo sulla gente comune». I media tradizionali, in mano a oligarchi cointeressati alla politica e in grado di favorire forze amiche e persino la propria scalata al potere, sono sempre meno consultati e influenti. Passando dalle mani di élite colte ai polpastrelli del popolo della rete, i media di terza generazione hanno assunto inediti rilievi politici.

Le piattaforme web riducono il divario tra insider e outsider, in teoria a vantaggio dei secondi; ma non è detto che la comunicazione «molti a molti» favorisca la democrazia liberale. La agevola quando vi ricorre chi contrasta regimi autoritari come Russia, Turchia, Egitto, Iran e Venezuela. Oggi l’arena politica è molto più accessibile anche senza grandi risorse e potenti organizzazioni. Moltissimi individui dispongono di canali e strumenti sufficienti a raggiungere, mobilitare e coordinare energie a loro affini. Tuttavia, circolano più facilmente idee e sentimenti estremi; si possono condividere senza quasi alcun filtro molte informazioni, che risultano scarse, uniformi, rozze, brutalmente partigiane e spesso false.

Le élites intellettuali sono spiazzate o invisibili. Le interazioni avvengono per lo più tra “anonimi”, nomi che non rispondono a una singolarità. «Gli istigatori dell’instabilità hanno guadagnato un vantaggio sulle forze che promuovono l’ordine». I populisti sembrano disporre di piattaforme in grado di avvelenare la politica e travisare l’opinione pubblica, come nel caso del Russiagate. Il tecno-ottimismo del primi due decenni del web ha fatto spazio nel terzo allo scetticismo degli analisti, ma l’impatto delle piattaforme sui comportamenti pubblici e privati è al momento incontenibile. Piattaforme come Facebook scatenano forze centrifughe e suscitano «camere dell’eco» in cui gli utenti ricevono informazioni pilotate sul loro “profilo”. Un presunto dialogo tra simili illude chi si bea di avere una personale «camera dell’eco», ma diminuisce, anziché aumentare, la qualità e l’entità reale della comunicazione. I dislivelli cognitivi, anziché ridursi, si accrescono. Subiamo, nella metafora di Harari, un’inondazione mirate ad personam di disinformazioni e distrazioni. Il passaggio dalla violenza e dall’intolleranza verbali alla pratica della violenza e dell’intolleranza è possibile, tanto più perché la tecnologia informatica, i saperi retrostanti e il loro uso sono al di fuori di ogni controllo di ordine liberale e democratico. Gli stati nazionali sono indifesi e vulnerabili come gli sprovveduti consumatori che si consegnano alle grandi e piccole piattaforme.

La scomparsa dello spazio pubblico a favore del mondo digitale viene surrogata da un’illusione partecipativa, condivisiva, conoscitiva e plebiscitaria che induce a vedere nel carattere di mediazione delle istituzioni democratiche e dei loro processi, un ostacolo al dispiegarsi della volontà popolare. La parallela contrazione prospettica del tempo compie il resto. La costellazione dei padroni del web – Windows, Google, Facebook, Instagram, Amazon, Twitter e Whatsapp – ha generato un invisibile “Grande Fratello” orwelliano che tutto vede, tutto sa, di tutto si impossessa fino a condizionare il pensiero corrente mediante gli algoritmi dei motori di ricerca e la cattura (cumulativa e pressoché gratuita) dei dati. Stiamo per venire sommersi da un totalitarismo monopolistico che domina senza bisogno del ricorso alla forza.

Tuttavia, secondo Mounk, «i social media non sono necessariamente buoni o cattivi per la democrazia liberale». Con la loro influenza possiamo spiegare «tanto la rivoluzione verde in Iran quanto l’uso dei social media da parte dell’Isis, tanto la Primavera araba quanto l’elezione di Donald Trump». I cambiamenti prodotti nel bene come nel male dalle tecnologie digitali sono accelerati e imprevedibili. Al momento la manipolazione sottomette a sé, sfruttandola, l’interazione; ma qualcosa potrebbe cambiare in meglio.

3) Le democrazie si sono appoggiate sull’omogeneità nazionale, a volte assimilando, in altre isolando gli elementi eterogenei: le minoranze linguistiche, gli afroamericani, i migranti dall’Europa meridionale e balcanica. La conciliazione tra autogoverno e inclusione dentro un insieme eterogeneo di cittadini è problematica. L’affermarsi dei nazionalismi, che aspiravano a un’unione perfetta di etnia, territorio e stato, ha prodotto quasi sempre la ricerca di una purezza etnica. La tragedia di due guerre mondiali ha messo ai margini i nazionalismi sacrificandoli alla stabilità, ma non ne ha depotenziato la portata illiberale, antidemocratica e intollerante. Mentre l’omogeneità etnica e religiosa ha facilitato i successi performativi della democrazia liberale, la rapida transizione al pluralismo si è sovrapposta alla sua crisi di rendimento.

Oggi la ricerca di un’omogeneità etnica e religiosa soffoca sul nascere, come in Birmania, i minuscoli semi di democrazia. La democrazia liberale o sarà pluralista a tutto tondo, o ripiegherà su se stessa.

«Decenni di migrazioni di massa e attivismo sociale hanno trasformato radicalmente queste società. In Nord America le minoranze razziali stanno finalmente reclamando un posto al tavolo. In Europa occidentale i discendenti degli immigrati cominciano ad affermare che anche un individuo di pelle scura può essere un vero tedesco o svedese. Tuttavia, mentre una parte della popolazione accetta il cambiamento, o addirittura lo sostiene, un’altra parte si sente minacciata e offesa. Di conseguenza, in tutto l’emisfero occidentale si sta diffondendo una vasta opposizione al pluralismo etnico e culturale».

La massiccia presenza di migranti turchi, italiani e slavi in Germania occidentale, dilatata in quasi un quarantennio, suscitò tensioni e allarmi minori rispetto ai flussi odierni di islamici e africani. Così è con i latino-americani e gli islamici negli Stati Uniti, che pure dovrebbero essere più sensibili nell’accogliere le eterogeneità: il passaggio da un residente su venti nato all’estero nel 1970 all’uno su sette di oggi non può non essere traumatico. È mutato il rapporto percettivo tra il tempo, oggi contratto, la quantità, oggi più intensa, e l’eterogeneità, oggi più vasta e a tutta prima meno assimilabile.

Paradossalmente l’ostilità contro i migranti è più accesa dove i tassi di immigrazione sono bassi o quasi inesistenti. In Polonia, Ungheria, Croazia e Lituania i residenti nati all’estero sono meno dell’1%, ma il risentimento e l’odio etnico e religioso sono più forti dei fatti oggettivi, e non sembrano dipendere più di tanto dalla resurrezione dei riprovevoli trascorsi antisemiti e integralisti di quei paesi. In Estonia nel 2011 i residenti nati in Africa erano 31, ma nei sondaggi il paese era minacciato anzitutto dai migranti.

«Se l’immigrazione di massa è una delle cause principali del loro successo, perché i populisti ottengono risultati di gran lunga migliori nelle aree dove il tasso di immigrazione è relativamente basso, anziché in quelle dove è relativamente basso?». «Le aree ad alto tasso di immigrazione tendono a concentrarsi in grandi città che attirano numerosi soggetti giovani e istruiti, bendisposti verso la diversità», di orientamento liberale e abituati al pluralismo. Il contatto regolare con le minoranze abbatte i pregiudizi nei loro confronti e anzi suscita sentimenti di fiducia reciproca. La soglia è data dalla presenza anche di pochi migranti nella vita quotidiana. Infine, «molta della rabbia verso gli immigrati è causata dalla paura di un futuro immaginato, più che dal disappunto per una realtà vissuta. Quando i livelli di immigrazione crescono, non è solo l’esperienza della vita quotidiana a cambiare; cosa altrettanto importante, si trasforma anche l’immaginario sociale di quello che il futuro potrebbe riservare al paese.

Questi fenomeni globali si sono accompagnati ad una lenta e puntiforme perdita di credibilità della politica e al logorarsi della configurazione tripolare tra conservatori, liberali e socialdemocratici.

[fine seconda puntata – La prima puntata è stata pubblicata nel numero del 9.03.19)]

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