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Stili di Vita

RABBIA

VALERIO CRUGNOLA - 22/03/2019

populismoIl grande affanno in cui versa l’agire politico liberaldemocratico, che colpisce anzitutto il suo versante ecologista ed equitario, si spiega con un intreccio di ragioni.

La politica ha fatto di tutto per perdere credibilità. I rappresentanti sono sempre più spesso dei cooptati, dei prenominati o dei capofila di apparati di consenso che pagano pesanti dazi alle lobbies ed esigono ingenti finanziamenti (i costi della propaganda politica con le relative professionalità sono enormi). Il voto di scambio non è più il clientelismo a beneficio di singoli, ma dei benefit per grandi finanziatori a capo di lunghe catene di voto. Fino a metà degli anni ’70 i gruppi di pressione europei e americani hanno rivestito un reale interesse pubblico, ma si sono via via trasformati in organi di sottogoverno o in potentati privati, diretti e non trasparenti, spesso in cordata tra loro. «Grazie all’erogazione di denaro privato, i potenti guadagnano e la politica pubblica viene reindirizzata». Così la trasparenza e la fiducia nella politica, nei politici e nelle élites portatrici sane di interessi pubblici vengono meno.

Se il denaro può comprare il potere o addirittura esercitarlo direttamente l’uguaglianza politica e civile assicurata dalla democrazia apparirà un’eccedenza irrilevante. Eletti per rappresentare opinioni e intenti di segmenti di società, i politici ne sono sempre più distanti. La loro rappresentatività è legittimata solo formalmente da un voto sempre più diradato. I rappresentanti non hanno più radici e rapporti con i territori dove sono candidati. La delocalizzazione è la regola. Lo smarrimento delle relazioni con la pluralità degli ambienti sociali inibisce alla politica l’esercizio dell’ascolto e del ruolo educativo e maieutico. Un abisso culturale separa governanti e governati. I politici di professione agiscono in modo autoreferenziale: questa malattia si chiama politicismo. Anche il civismo può essere una finzione, una maschera o una mera espansione dello scudo partitico. A qualcuno la domanda “Chi ci governa?” non piacerà; ma è legittima.

I nuovi media hanno destrutturato la partecipazione popolare organizzata. Partiti, associazioni di categoria, sindacati e dibattiti pubblici nell’agorà reale contano sempre meno, ignorano il rinnovamento generazionale, hanno vita breve, vivono di rendita e si estinguono senza appello quando falliscono. I sentimenti si muovono a ondate in direzioni a corto raggio, ma alcuni cercano di solidificare queste ondate per minare la democrazia liberale. Non sono solo i media a liquefare la politica. La volatilità e l’evanescenza delle connessioni tra rappresentanti e rappresentati sono evidenti. I legami generati da ideali condivisi (che sono altra cosa dalle ideologie, ossia da narrazioni elevate a visioni cristallizzate del mondo) si sono allentati a favore di legami fluidi imperniati su nemici condivisi.

È scomparsa la ragione prima dei governi liberaldemocratici, la possibilità di orientare la politica economica e la redistribuzione. Il liberismo ha soffocato il liberalismo. I grandi decisori sono divenuti inavvicinabili dai legittimi ruoli di tutela, di freno, bilanciamento e controllo degli stati nazionali e delle stesse organizzazioni sovranazionali. Di fatto la democrazia è diventata una competizione tra oligarchie in concorrenza reciproca. A sua volta il welfare ha perso per strada i suoi fini equitari. La politica monetaria sfugge a regolazioni democratiche. Lo snellimento degli apparati amministrativi è troppo lento perché un ridotto debito pubblico faciliti gli investimenti, i servizi e la redistribuzione. Privo di ruoli ma con costi elevati, lo stato investitore ostacola lo stato facilitatore. Il deficit spending è insostenibile se non si accompagna alla crescita. Le finalità del welfare state keynesiano sono state erose dalla loro insostenibilità fiscale nel quadro di una competizione globale. Chi riforma spesso si assicura l’impopolarità. I costi sostenuti per la fiscalità non restituiscono benefici apprezzabili ai contribuenti leali e produttivi. I trattati internazionali sul libero scambio hanno portato grandi vantaggi in direzione di un’economia globale ma non hanno migliorato la governance globale. In cambio, hanno ingessato la politica estera, ridotto i margini della politica interna e sottratto spazi alla discussione democratica. La politica è stata a lungo e tuttora è prigioniera di una visione ultraliberista e ipercapitalista: una religione pagana e mondana a cui tutti si sono piegati nel timore di essere delegittimati a governare. Così la prospettiva falsificante e distruttiva del sovranismo, di vecchi e nuovi nazionalismi, regionalismi e localismi e il ritorno di ideologie protezioniste, tendenzialmente autoritarie, sono fenomeni epidemici. I primi a pagare i danni sono i paesi in via di sviluppo.

A propria volta le assemblee legislative hanno perso molto del loro potere rispetto ai tribunali, alla burocrazia, alle autorità indipendenti, alle banche centrali, ai trattati e a vari organismi internazionali come l’Unione Europea, liberale ma non democratica. Questi istituti non sono di necessità un male; si tratta però di coglierne i deficit e gli esiti negativi. In genere «il liberalismo antidemocratico ha grandi vantaggi, ma questo non è un buon motivo per essere ciechi dinanzi alla sua natura».

In passato i processi di attuazione e implementazione della legge hanno concesso ampi margini discrezionali a funzionari non eletti. La nuova situazione ne accresce i poteri. La volatilità della politica potenzia la burocrazia. Di conseguenza, «la capacità dei rappresentanti eletti dal popolo di incidere sulle politiche pubbliche è diminuita in misura significativa». Anche il ruolo delle “autorità indipendenti” indebolisce la democrazia e il ruolo della politica. L’autorità indipendente più potente è la Commissione Europea. Le generiche priorità politiche vengono stabilite nel corso di vertici annuali dei capi dei governi degli stati membri. Ma il parlamento europeo ha pochi poteri regolativi e non è mai stato il motore reale delle attività dell’Unione, affidate ad altissimi burocrati di carriera chiamati ad attuare e implementare le direttive generiche dei governi. Le presidenze di Delors e Prodi alla Commissione Europea, al contrario di quelle di Barroso e Juncker, hanno tutelato la società dalle aggressive politiche liberiste. La narrazione ideologica secondo cui occorre ridurre i diritti sociali per potenziare quella concorrenzialità che – sempre secondo la favola – ci restituirà ad abudantiam i diritti perduti, ha avuto effetti devastanti e talora irreversibili.

L’indipendenza delle banche centrali è un punto controverso. Ha vantaggi liberali, perché le sottrae ai plebiscitarismi, allo spoil system e alle logiche politiciste di breve respiro; ma evidenzia anche un deficit democratico nella distanza tra i tecnocrati abilitati a decidere, gli elettori e persino gli eletti circa temi cruciali come i tassi di interesse, i livelli di inflazione o le direzioni di spesa. La stessa ambivalenza riguarda le corti costituzionali: è vero che, con la loro facoltà di revisione delle leggi, esse tutelano i diritti delle minoranze e dei singoli e gli equilibri tra i poteri, ma al tempo stesso sottraggono molte questioni alla discussione pubblica. Ci sono principi non negoziabili, come i diritti dei musulmani svizzeri di erigere minareti e il dovere della maggioranza degli elvetici di rispettare questo diritto senza ricorso a plebisciti referendari; altri temi meritano invece una discussione pubblica.

Infine, l’urgenza di evitare catastrofi ambientali e culturali irreversibili crea uno squilibrio tra decisioni e consenso. Due sole domande a titolo di esempio. Come frenare una crescita demografica insostenibile riducendo le nascite? Come affrontare il surriscaldamento climatico senza minare il consenso democratico? Cosa accadrebbe se la maggioranza degli stati adottasse per volontà popolare ulteriori politiche contrarie all’ambiente, come negli Stati Uniti, in Turchia e in Polonia?

Che gli elettori fossero delusi dalla politica lo si sapeva. La delusione provocava astensionismo, non destabilizzazione. Ora il sistema storico dei partiti si è scongelato e disgregato, così come si sono disgregati i riferimenti che li sostenevano e si stanno disgregando i valori che condividevano insieme. Si è passati dalla delusione per i partiti alla delusione per le istituzioni. Gli elettori, volatilizzati, sono dominati dalla rabbia. Si manifesta una disaffezione per la democrazia in quanto tale, un disincanto pericoloso non più solo verso un sistema partitico, ma verso il sistema politico. La strategia di potere e i paradigma del populismo si sono originati e diffusi nella cornice di queste difficoltà.

  [fine terza puntata – Le prime due puntate sono state pubblicate sui numeri del 09.03.19  e del 16.03.19]

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