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Attualità

VOCE DI LIBERTÀ

LUISA NEGRI - 05/04/2019

La donna fustigata in Afghanistan

La donna fustigata in Afghanistan

Meglio morire che sopportare quanto accaduto in Afghanistan alla donna mostrata su Facebook (da parte degli stessi giustizieri, pare a scopo dimostrativo) mentre viene colpita a cinghiate: naturalmente per mano di un individuo che non merita di essere chiamato uomo.

Non un lamento esce dalla bocca di quel fagotto invisibile, buttato nella polvere, che non deve cercare di difendersi o gridare perché, chissà, poi magari le frustate raddoppiano a casa, se casa si può chiamare l’inferno in cui vive una creatura come lei. E perché la punizione deve apparire esemplare e muta nella sua ‘giusta’ accettazione e quindi un lamento sarebbe di disturbo alle regole.

La sharia -la legge che considera le donne meno di zero e le punisce persino se osano presentarsi in pubblico o ascoltare musica, come accaduto qui- continua a tenere in situazione di schiavitù le femmine di questo sofferente paese.

Il video rivela tutta la brutalità di un comportamento che dovrebbe essere universalmente ritenuto inaccettabile. E che viene ancora assecondato e sostenuto da un mondo in cui la donna non ha il minimo diritto, e recepito con distacco da chi invece, nei paesi democratici, ci si aspetta manifesti disapprovazione per tanta barbarie.

Prima dell’affermazione dei talebani, in Afghanistan si viveva, almeno in parte, più liberamente: e negli anni Sessanta diverse donne studiavano, lavoravano e si vestivano come quelle occidentali. Si profilavano insomma speranze e tempi migliori.

Poi proprio tutto è cambiato e l’ombra nera dei nuovi integralisti spietati s’è smisuratamente allungata sui loro abiti, sui loro occhi, sulle loro vite indifese.

Così che oggi ci appare quasi consuetudinario vedere situazioni come queste, o addirittura viene facile pensare: purtroppo in quei paesi ‘si usa così’ e non ci possiamo fare niente.

Ma vogliamo rifletterci un po’? Facciamolo, almeno noi donne.

Facciamolo nei nostri pensieri e con le nostre voci, o con la nostra scrittura, o dalle nostre cattedre, dai conventi, dalle chiese, dagli ospedali dove curiamo le sofferenze dei malati, dalle nostre case, tra le nostre famiglie, forti del nostro essere donna in occidente, dei nostri impegni pubblici e privati.

Cosa aspettiamo a tendere una mano a quella poverina infagottata e buttata nella polvere, umiliata e picchiata sotto gli occhi di tutti: cui si dice e si dimostra che “se sbagli, se non fai come diciamo noi, guarda cosa ti spetta”.

E cosa aspettano i maschi potenti di ogni dove, quelli in carriera o già piazzati in alto, quelli che tentano ogni giorno di sedurre gli elettori per accaparrarsene il voto, a dire e dimostrare che sono stufi di queste prevaricazioni e brutalità dei loro colleghi maschi? Lì, ma anche ovunque accadano, come accade anche da noi, situazioni di sopraffazione maschile.

É importante osservare il filmato, la cui visione è stata sconsigliata (ma certe realtà bisogna invece osservarle coi propri occhi)! da alcuni giornali: vedrete non solo il segno della brutalità maschile, che non ammette neppure il pianto della vittima, e che alla fine esulta per il lavoro compiuto, ma se farete attenzione fino all’epilogo, sentirete anche il pianto sommesso di un bambino. Visi di bambini, osservando bene, si intravvedono infatti nel cerchio dei presenti, anche loro chiamati ad assistere a certe esemplari punizioni: bambini a loro volta vittime di una doppia realtà quotidiana, tragica e cruda, la loro e quella delle loro mamme e sorelle

Necessario, se vogliamo aver coscienza di quanto accade, è anche conoscere da vicino la serie di divieti imposti alle donne di questo paese, la cui vita é totalmente negata, imprigionata, quotidianamente vessata, da parte di leggi disumane, che tendono a far apparire la donna come un soggetto impuro, fonte perenne di guai e di tentazioni per l’uomo: per questo non deve mostrargli le caviglie, non deve indossare abiti colorati, né andare in bicicletta o in moto, non può indossare tacchi, se va dal medico ci deve andare coperta, accompagnata da un parente maschio che la segua ovunque. Non può ascoltare musica o mostrarsi in locali pubblici: né deve far sentire in pubblico la propria voce, che potrebbe essere fonte di seduzione.

Vittima e prigioniera di un inferno domestico e sociale che non conosce tregua, la donna in Afghanistan vive insomma un isolamento che dovrebbe essere dichiarato inaccettabile da chiunque abbia la pretesa di difendere i diritti e la dignità umana.

Malalai Yoya, deputata e scrittrice, autrice di Raising my Voice (finché avrò voce), attivista che da anni si batte per la libertà del suo Paese e per la lotta delle donne afghane contro un sistema corrotto e inaccettabile, non ha smesso di sperare e credere nella solidarietà del mondo e soprattutto in quella di tutte le altre donne.

E dice che è molto importante ogni parola spesa, ogni segnale di sostegno e approvazione che arrivino da fuori, perché fanno compiere un passo in avanti verso la libertà che, ne é convinta, un giorno sarà realtà anche nella sua tormentata terra.

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