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Apologie Paradossali

OLTRE LA PAURA

COSTANTE PORTATADINO - 19/04/2019

Devo cominciare con un atto di scusa ai lettori. La mia mancata o distratta revisione del testo ha omesso una parola importante nelle conclusioni della scorsa apologia ‘IL DISTACCO’ (tra Fede e fiducia) che ne ha reso difficile la comprensione. Doveva comporsi così: “Mi sembra che oggi stia avvenendo il fenomeno opposto, il distacco della fiducia/fides laica dalla fede cristiana e dalla sua visione antropologica; si vorrebbe che la fiducia possa sopravvivere alla <RIDUZIONE> della Fede (con la maiuscola) a faccenda privata e poco attuale, se non <A> residuo medievale”.

Mi permetto di considerarla una felix culpa, perché mi consente di ripartire dal punto centrale della riflessione precedente, per riproporre con maggior pertinenza il tema della crisi di fiducia, che ora voglio ampliare dal fenomeno del matrimonio ridotto a contratto temporaneo alla caratteristica dominante della contemporaneità: la paura. Non la paura (del diverso, dell’immigrato, della povertà economica, dei fascisti, dei comunisti, dei cinesi, degli americani, di Trump, delle atomiche di Kim) è la causa di tutti i nostri disagi, ma il venir meno della fiducia di un positivo nelle persone e nella realtà stessa. E’ molto opportuno confrontarsi con quanto scritto da Ronza, qui, la volta scorsa, ricordando l’incontro con Oliver Sacks: “A partire dalla sua esperienza di scienziato “laico” Sacks  confermava insomma con grande rigore un’idea tipicamente giudaico-cristiana: che cioè in ultima analisi la realtà è un cosmos, un ordine, e non un caos…. Stiamo bene attenti insomma a non rassegnarci a giudicare un caos la situazione socio-politica in cui siamo. Così facendo ci impediremmo di capirla e di comprenderne i motivi. E quindi ci condanneremmo senza scampo a subirla passivamente”.

La fiducia nella capacità della scienza di comprendere fenomeni complessi, o quella nella lealtà delle persone con cui abbiamo rapporti importanti, rimanda ad un fondamento precedente, ad una fede “che non è più per me ciò che era nei giorni della mia giovinezza, un’adesione appassionata nell’oscurità. Ma una certezza solida, qualcosa di magnificamente pieno e ragionevole” secondo le parole illuminate di Claudel.

Per ritrovare fiducia negli uomini, nella politica, nell’economia, nel proprio lavoro, nell’amore, nella compagna (se non si vuole che sia moglie), nei figli che ci sono o che verranno, non ci si può attaccare a oggetti materiali, a garanzie di sopravvivenza, di reddito o di difesa, Nemmeno si può compiere un salto nel buio, che non è fede, ma sventatezza; occorre un giudizio. Per affrancarsi dalla paura occorre avere un giudizio che sappia comprendere la realtà e renderci sicuri delle scelte che comunque facciamo, che comunque determinano il futuro nostro e altrui, anche quando, per paura, crediamo sia meglio restare in posizione d’attesa, senza impegnarci definitivamente.

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Mentre sto pensando a come introdurre l’argomento successivo, valutare se la crisi di fiducia della Chiesa cattolica in se stessa e nell’assistenza dello Spirito Santo sia una reale crisi di fede o soltanto una riduzione della capacità di giudizio sul mondo, che può farla apparire debole e perdente, irrompe la notizia dell’incendio della cattedrale di Notre-Dame.

Subito mi colpisce un’affermazione di Fabio Fazio: “Brucia un simbolo della nostra civiltà”. Che questa non sia una banalità, un modo di dire, è confermato da tutti i successivi interventi di intellettuali e artisti laici: non è un simbolo del cattolicesimo, ma della civiltà europea. Ecco riemergere – mi dico – quel nesso vitale tra fede cristiana e fides civile, che non riuscivo a spiegare bene, la follia di quel distacco che agli illuministi e ai loro epigoni fino ad oggi apparve invece un bene irrinunciabile, tanto da spingere i giacobini alla distruzione delle forme esteriori non solo di questa, ma di tante chiese di Francia, sperando invano di colpirne il cuore spirituale. Poco importa che il suo restauro sia stato voluto due secoli fa dalla Restaurazione politica e che lo Stato francese abbia voluto mantenerne la proprietà, ovviamente per ribadire la propria superiorità sopra la Chiesa: appropriarsi della cosa non significa appropriarsi del suo significato. (Siamo tornati alla questione di Eco: anche quando non c’è più la cosa, non ci resta solo il nome: ci resta il significato, che conserva e comunica l’esperienza che abbiamo fatto della cosa stessa.)

Permettetemi dunque di correggere le parole di Fazio e degli altri intellettuali: brucia la cosa, non il simbolo; anzi esso riemerge come tale proprio dalle fiamme e dal fumo, proprio dalla constatazione che in fondo quello che è andato perduto è il rifacimento moderno di Viollet-le-Duc, proprio dalla constatazione che non vi erano poi all’interno grandissime opere d’arte, proprio dal sapere che non si tratta di un attentato a sfondo politico-religioso, quasi un martirio, ma di una banale trascuratezza. Il simbolo rimanda alla verità del significato, ben oltre la sua esistenza materiale, oltre le circostanze stesse della sua eventuale scomparsa.

La ricostruzione della ‘cosa’ di Notre Dame appare subito un sacro dovere universale. Accorrono ad essa gli Stati laici, compresi quelli non toccati dalla fede cristiana, accorrono le multinazionali della moda (quanto di più lontano dall’indole di Papa Francesco), accorrono i fedeli fervorosi e quelli tiepidi, accorrono gli scettici e gli scienziati. La ricostruiranno più sicura e più tecnologica, presumo identica nell’aspetto esteriore, rafforzata, sono convinto, nella funzione di essere simbolo della insuperata alleanza tra fides civile e fede cristiana.

Un punto importante, va ancora chiarito: questa ‘strana’ alleanza si fonda proprio sopra un’irriducibile diversità tra le due ‘fedi’: quella civile comporta una reciprocità, fatta di lealtà e fedeltà tra due parti, che hanno diverso potere e responsabilità, ma che stanno sul medesimo piano della fattualità; quella religiosa getta un ponte verso il mistero, fondandosi sulla testimonianza di persone partecipi di un evento gratuito e irrepetibile e richiede a ciascuno e a tutti un movimento della mente e del cuore in una sola direzione: credere. Credere a quei testimoni, che a loro volta hanno creduto ad altri, risalendo una generazione dopo l’altra fino a coloro che quegli avvenimenti avevano veduto e toccato con mano. Questa differenza mi consente di rispondere a tutti gli intellettuali che hanno scritto ‘Notre Dame è più di una chiesa, è un simbolo’, dicendo invece ‘Notre Dame, come la più piccola chiesa di campagna, è più di un monumento, è una chiesa’, cioè un luogo dove vive veramente un popolo di credenti, è la casa del popolo di Dio.

Insieme, non credenti e credenti ricostruiranno la ‘cosa’, volendo i primi costruire un simbolo di speranza, cioè un’utopia, avendo i secondi la certa volontà di costruire il luogo di una vita concreta, che rende possibile e fruttuosa una comunione di persone. Avvicinandoci alla Pasqua ci permettiamo di ricordare che noi cristiani crediamo in una resurrezione, e questo vogliamo per la Chiesa, per la Francia, per l’Europa, non ci basta organizzarci per un restauro.

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