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Cara Varese

CHI VUSA PUSSÈE

PIERFAUSTO VEDANI - 03/05/2019

Per alcune notti, ma in particolare la penultima e l’ultima di quelle che precedettero la prima alba della nascente democrazia italiana, migliaia di auto e camion diretti verso la Svizzera e l’Alto Lario transitarono dal nodo stradale di Camerlata, la importante periferia Sud della Como industriale. Si era nella terza decade dell’aprile 1945 e all’ultima grande, disperata fuga nel profondo Nord dei resti dell’ esercito nazista e di quello della Repubblica di Salò, che ufficialmente come tale non è mai esistita perché l’unica capitale della prima e ultima repubblica antidemocratica di casa nostra fu Brescia.

Solo infatti dopo l’annuncio ufficiale della scelta di Brescia, dovuta agli eventi bellici e alla ignominiosa storica fuga dei Savoia, ci si ricordò che poco più di un secolo prima la città capoluogo del Nord Est di Lombardia proprio per le sue memorabili “dieci giornate ” di rivolta contro gli austriaci si era meritata l’appellativo di “leonessa”.

E allora si rimediò con il classico cambio di indirizzo e la riduzione degli spazi amministrativi per la sede del nuovo stato che avrebbe avuto come città – faro la graziosa, lacustre e pacifica Salò.

Nacquero così la “repubblichina sociale” da affidare a un Mussolini ectoplasma e anche il relativo sprezzante diminutivo degli antifascisti che bollava tutto quanto potesse essere collegato al nuovo culto della camicia nera.

In quei tempi di emergenza nulla contava, dal punto di vista storico e monumentale, delle precedenti reali residenze nazionali di Torino e Firenze e ovviamente Roma. Quest’ultima è fortunatamente oggi in pieno fulgore repubblicano, anche se a volte diventa sede ambita per esibizioni di emergenti professionisti del vecchio avanspettacolo.

A Milano e nel Nord Ovest di Lombardia la guerra lasciò pesanti eredità dovute alle incursioni aeree: Varese “provincia con le ali” pagò anche un pesante tributo di vittime civili per i due bombardamenti della Macchi, vittime oggi non ancora ricordate con una dignitosa scadenza temporale da chi avendo notevoli limiti politici, storici e culturali per esempio ha imposto ai varesini eventi e personaggi che non incidono per niente sulla storia della nostra gente e invece addirittura nascondono una grande luce di verità, come può essere una medaglia d’oro della Resistenza.

Ero ragazzino, mio padre mi concesse di osservare una sola volta e non a lungo la rumorosa fuga notturna dei nemici della democrazia, fuga alla quale posso aggiungere come altra esperienza vissuta “in diretta “ un paio di mitragliamenti aerei e un “raid“ alla vecchia polveriera di Albate appena smantellata e che a noi, implumi incoscienti del tempo, offrì un insperato bottino da utilizzare per gioco.

Di frequente dopo la devota partecipazione alle “funzioni” e ai costumati giochi oratoriani noi ragazzini ci si scatenava in iniziative “guerresche” e come tali molto pericolose. Fu così che un giorno i brigatisti neri perquisirono diverse abitazioni appunto di giovanissimi in cerca di un malloppo di razzi scomparsi da alcune casse nei pressi della polveriera di Albate. Razzi che, abilmente occultati sotto il pavimento del campanile, noi ogni tanto si faceva esplodere nottetempo e con grande divertimento. Un mio lancio però fu tanto maldestro da richiedere l’intervento dei pompieri : da un vecchio deposito di segatura di un mobilificio antistante la chiesa di Camerlata infatti c’erano stati inequivocabili segnali delle mie precoci ridotte attitudini militari. Avvenne non appena il razzo illuminante e il suo paracadutino ebbero attraversato la strada per planare proprio dove il fuoco era considerato il numero 1 dei nemici.

Poco tempo dopo non fu più l’oratorio la base delle nostre operazioni, ma la sede della cooperativa di consumo: era l’aprile del 1948, avevamo i primi pantaloni lunghi, ma continuavamo a essere i garzoncelli scherzosi dell’intero quartiere.

Il tempo della mia iniziazione cooperativistica corrispose con quello delle prime grandi libere elezioni. Se sembrava che l’Italia si prendesse a coltellate, l’atmosfera del nostro nuovo ambiente sembrava un laboratorio di sperimentazione di calmanti, occorreva una “sveglia” e tre del mio gruppo azzeccarono la formula giusta che venne applicata con slancio: sull’ampio zoccolo della facciata della chiesa parrocchiale un sabato sera preelettorale apparve una grande e perfida scritta: “Abaso i preti W il PCI !”.

Scoppiò il finimondo, anni dopo avrei meglio inquadrato l’episodio come “strategia della tensione”, in realtà se ben ricordo la scritta fu scelta perché “con un solo tiro in porta potevi fare due gol”, come valutò “Socrate”, un compagno d’avventura che oggi per il suo immutabile concreto filosofare potrebbe essere un leader politico.

Ci si domanda a volte come noi del gruppo di ragazzini anni 40, tutti figli dell’ambiente di lavoro, si possa essere stati per sempre una famiglia, uniti e affezionati come se avessimo, alle spalle e in prospettiva, la stessa storia. È certo che rispetto a molti dei giovani del 2000 avevamo ben poco, al massimo solo la sana voglia di fare malestri che accompagna sempre l’età giovane.

Non rimpiango però gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza, ovvero l’inizio della mia gioventù: la dittatura e la guerra furono infatti per tutte le comunità una realtà cupa e dolorosa.

Come vecchio italiano oggi rimpiango invece la classe politica che nel Dopoguerra ha ricostruito l’Italia coinvolgendo e premiando tutti i cittadini di buona volontà.

Oggi invece, come dicevano gli antichi lombardi, solo chi vusa pussèe la vaca l’è sua. In Italia, ma non in Europa e nel mondo, dove siamo messi male non essendoci tra l’altro molte mucche. Come quando si emigrava anche oltre gli oceani in cerca di lavoro. E le balle che raccontavano i nostri politici erano le stesse di oggi.

Ecco perché in questi anni nelle scuole si tenta anche di non far più studiare la storia.

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