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Attualità

UN GIALLO A PEDALI

CESARE CHIERICATI - 17/05/2019

Nino Defilippis, Fausto Coppi e Ugo Koblet sulle rampe dello Stelvio (Giro d'Italia 1953)

Nino Defilippis, Fausto Coppi e Ugo Koblet sulle rampe dello Stelvio (Giro d’Italia 1953)

Il ciclismo, si sa, vive della propria storia, come nessun altra disciplina sportiva. Forse perché è avventura, viaggio, incertezza dentro un mondo che si svela e risvela sempre uguale e diverso allo stesso tempo; il destino di un atleta, di un uomo appeso al filo sottile della sorte che ad ogni curva, in salita, in discesa, in una volata a piena velocità può rivelarsi amica o fatale. Vittoria e sconfitta sono, al netto del talento di ciascuno e delle tecnologie, due facce della stessa medaglia di fatica e di sudore. Per questa ragione il Giro e il Tour lavorano molto sulla memoria della propria storia, ormai più che secolare, intesa come una specie di album di famiglia da aprire e chiudere a date fisse, fra metà maggio e fine luglio.

Nel Giro in corso le foto di famiglia da celebrare sono parecchie. Si è iniziato domenica scorsa in Toscana con la tappa di Fucecchio, Lamporecchio e la salita del San Baronto, dedicata a Gino Bartali che proprio in quelle terre domestiche scoprì il suo enorme talento poi giornalisticamente nobilitato, con quello di Coppi, anche dalla prosa di Indro Montanelli prestato dal Corriere alle due ruote nei giri del ’46 (primo Bartali) e del ‘47(primo Coppi).

Saranno però le tappe di mercoledì 22 e giovedì 23 l’epicentro della memoria in questo 2019 che celebra il centenario della nascita (Castellania,15 settembre 1919, ore 21.30) di Fausto Coppi e del primo trionfo di Costante Girardengo al Giro d’Italia. Si arriverà a Novi Ligure sul vialone di Casa Coppi, la villa di famiglia abitata dal figlio Faustino dove spesso capita che qualcuno suoni al cancello e chieda di visitare l’abitazione come fosse un museo, un fatto che ancor oggi stupisce e lusinga il mite erede del campionissimo. E per intero a lui è dedicata la tappa successiva Cuneo – Pinerolo, versione ridotta e addomesticata di quella che la storia del ciclismo considera la “tappa delle tappe”. Cinque colli, in micidiale sequenza su strade sterrate e infangate (Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro, Sestriere), aggrediti da un Coppi intrattabile che si presentò a Pinerolo con 11’32” di anticipo su Bartali dopo aver percorso in solitudine la bellezza di 192 chilometri. Terzo a 19’14” arrivò Alfredo Martini, “il primo degli umani” annotò un cronista.

L’ultima settimana, quella delle grandi montagne dove nove volte su dieci si decidono i grandi giri, prevede dal 1965 il rituale appuntamento con Cima Coppi, ovvero la montagna più alta di ogni edizione della corsa rosa. Quest’anno, come in sette precedenti edizioni, sarà il passo Gavia con i suoi 2621 metri di altitudine.

Con ben undici passaggi è però il Pordoi, gigante dolomitico di 2239 metri, a detenere il primato delle cime Coppi. Ma la cima Coppi per antonomasia resta però lo Stelvio. È lungo i suoi 48 tornanti della penultima tappa del Giro del 1953 che il campionissimo firmò un’impresa straordinaria quanto inattesa.

Era la prima volta che gli organizzatori osavano spingere la carovana sull’Everest dei valichi alpini. Il Giro sembrava ormai deciso a favore del fuoriclasse svizzero Ugo Koblet, maglia rosa a Roma nel 1950 e maglia gialla a Parigi l’anno dopo, di sei anni più giovane del campionissimo. Per qualche stagione fu ai suoi livelli. In quel Giro del ’53 era davanti a lui in classifica di quasi due minuti al termine della terz’ultima tappa, la combattutissima Auronzo – Bolzano vinta da Coppi in volata senza che Koblet opponesse la benché minima resistenza. I cronisti al seguito dissero che un tacito patto di non belligeranza era stato stretto tra i due: all’italiano la prestigiosa vittoria di tappa e all’elvetico il secondo Giro in carriera. Una soluzione “diplomatica” che non piaceva ovviamente agli organizzatori.

A sera alcuni di loro sondarono le intenzioni del tortonese per convincerlo ad attaccare il giorno dopo sulle sconosciute rampe dello Stelvio innevato. Fausto piuttosto infastidito dalla richiesta rimase in silenzio. Taciturno e lontano come sempre. L’indomani la Bolzano – Bormio di soli 125 chilometri prese il via a folle velocità, il gruppo tirato dagli uomini della Bianchi si spezzò in due tronconi con la maglia rosa nel secondo e quindi costretta a spendere molte energie per rientrare. “Sulle prime rampe della Stelvio restiamo subito in pochi, allora il Fausto mi viene vicino e mi dice “Nino ti sentiresti di dare un colpetto?” Anche se corro per la Legnano non posso tirarmi indietro, me lo chiede Coppi, attacco. E Koblet commette il più grande errore della sua vita, cerca di riprendermi. Coppi ha il pretesto per attaccare, piomba sullo svizzero, parte e va. Mi affianca, mi passa in una curva. Mi vengono ancora i brividi a distanza di quasi mezzo secolo. Non ho mai più visto nulla di simile, nemmeno Merckx, nessuno mai, sembrava una motocicletta”.

La testimonianza di Nino Defilippis (1932-2010), detto “Cit”, ragazzino in dialetto torinese, corridore di alto profilo e poi commissario tecnico della nazionale negli anni ‘70, è stata confermata a chi scrive nel settembre 2006 dopo averla narrata nel volume autobiografico “I miei campioni” a cura di Beppe Conti. Così anche quel Giro, il quinto, fu del campionissimo tra un mare di polemiche e di fantasiose dietrologie.

La versione del “Cit”, che ha svelato un “giallo storico” del ciclismo, venne confermata anche da Remo Pianezzi, il ticinese fedelissimo gregario di Koblet. Dopo le morti tragiche di Fausto (1960) e di Ugo (1964) venne istituita da Vincenzo Torriani “Cima Coppi”, a ricordo perenne di quell’epico duello. Anche due eccellenti corridori di casa nostra hanno messo in anni non lontani la loro firma su quel prestigiosissimo traguardo di alta quota: nel 1992 Claudio Chiappucci sul Pordoi e due volte Stefano Garzelli: al Sestriere (2009) e sul Giau (2011).

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