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Stili di Vita

DEMOCRAZIA E PERICOLI

VALERIO CRUGNOLA - 17/05/2019

Yuval Noah Harari

Yuval Noah Harari

È difficile spiegare il profilo scientifico di Harari. I suoi volumi intrecciano storia, filosofia, antropologia e varie scienze dell’evoluzione quali l’economia, la sociologia, la storia della tecnica, la psicologia e la pedagogia. La profondità e l’approccio innovativo si sposano con l’alta divulgazione e con una lettura gradevole. Il suo volume non si occupa soltanto della crisi della democrazia liberale e delle minacce del populismo, ma estende i punti di vista e spesso apre prospettive inquietanti. I campanelli d’allarme di Harari vogliono aiutarci ad avere una visione dei problemi chiara e a tutto campo. «In un mondo alluvionato da informazioni irrilevanti, la lucidità è potere». Di questa lucidità manchiamo: come specie, come attori politici, come consumatori e come istituzioni. Il tempo a disposizione è pochissimo, e forse è già scaduto per molte specie viventi, ma altresì per la filosofia, la religione e la scienza.

Harari indaga «le connessioni tra le grandi rivoluzioni della nostra epoca e le vite interiori dei singoli esseri umani». «Un mondo globale esercita una pressione senza precedenti sui nostri comportamenti e sull’etica individuale». «La duplice rivoluzione informatica e biotecnologica ci pone davanti alle più grandi sfide che la nostra specie abbia mai affrontato. La convergenza delle tecnologie informatiche e di quelle biologiche potrebbe presto espellere dal mercato del lavoro miliardi di soggetti e mettere a rischio sia la libertà che l’uguaglianza», ristrutturando le economie, le società ma anche i corpi e le menti. «Gli algoritmi che elaborano i Big Data potrebbero instaurare dittature digitali in cui tutto il potere è concentrato nelle mani di una minuscola élite mentre la maggior parte delle persone soffre non tanto per lo sfruttamento, bensì per qualcosa di molto peggiore: l’irrilevanza». A propria volta l’intelligenza artificiale consentirà a queste élites di rimodellare e riprogettare la vita stessa, di controllare il mondo interiore e di “ingegnerizzare” l’esistenza di ogni singolo. «Impareremo a progettare cervelli, a estendere la durata della vita e a uccidere i pensieri molesti», ossia non conformi e non convergenti.

Sino a trenta anni fa, la democrazia liberale si è rivelata il sistema politico più efficace e versatile rispetto a ogni altra alternativa storicamente configurata. Sia pur a fatica e a caro prezzo, ha trionfato sul colonialismo, l’imperialismo, il nazionalismo, il nazifascismo e il comunismo. Le sfide attuali evidenziano però anche i limiti di questo sistema e ci obbligano a riflettere su come adattare e migliorare le sue istituzioni davanti alla necessità di una governance globale che ovviamente la presunta “mano invisibile” del mercato non è minimamente in grado di offrire. Sappiamo che dobbiamo dare più libertà, più responsabilità, più formazione, più protezione sociale, più equità e più sicurezza alla popolazione mondiale, ma la narrazione secondo la quale la democrazia liberale avrebbe trionfato ovunque dopo la caduta del totalitarismo sovietico si è rivelata semplicistica e inconsistente. La disillusione è giunta con la crisi finanziaria globale del 2008 ed è giunta a un punto di svolta nel 2016 con la Brexit e la vittoria di Trump. Nel generale disorientamento, i regimi autoritari e pragmatici come Cina e Russia o i governi sovranisti degli Stati Uniti e del “Regno Disunito”, definiti da Harari “nichilisti”, ossia privi di qualunque bussola valoriale, fungono da modello per chi non vuole rinunciare ai propri privilegi etnici, nazionali e di genere. Peraltro, la trasformazione radicale del paradigma tecnologico estromette la politica e anzi la sottopone a indebite interferenze, spesso falsificatrici (ne sa qualcosa Hillary Clinton). «Le rivoluzioni nell’ambito delle tecnologie informatiche e biologiche sono portate avanti da ingegneri, imprenditori e scienziati che sono appena consapevoli delle implicazioni politiche delle loro decisioni, e che di certo non hanno nessuna delega. Riusciranno i parlamenti e i partiti a occuparsi direttamente di queste materie? Al momento non sembra».

Harari non nutre simpatia per i populisti, che ben conosce come ebreo laburista impegnato per i diritti della comunità LGBT e contro le politiche della destra oltranzista di Netanyahu. Il populismo è però il sintomo di un generale malessere che attraversa masse che si sentono ininfluenti, che temono di perdere il loro status economico e che «cercano di usare quello che resta del loro potere prima che sia troppo tardi». «Forse nel XXI secolo le rivolte populiste saranno inscenate non contro un’élite economica che sfrutta il popolo, ma contro un’élite economica che non ha più bisogno dell’appoggio del popolo». Non assistiamo al tramonto delle ideologie, ma dei valori elementari che ispirano la democrazia: i diritti. Ad esempio, «la Russia offre un modello che non è un’ideologia politica coerente. Si tratta piuttosto di una gestione politica in cui un numero ristretto di oligarchi monopolizza la maggior parte della ricchezza del paese, e poi sfrutta il controllo dei mezzi di informazione per occultare certe sue attività e consolidare il suo dominio». Il modello oligarchico attrae forse i russi accecati dal mito della grandeur dell’impero zarista e staliniano, ma non attirano nessuno al di fuori della Russia: chi potrebbe espressamente auspicare, tutti in una volta, un regno oligarchico, una diseguaglianza estrema, una corruzione endemica, l’illegalità generalizzata, i servizi malfunzionanti e la persecuzione sistematica delle minoranze politiche, degli omosessuali e dei gruppi etnici non russi? Lo stesso vale per chi sogna di restaurare un “passato glorioso” negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Francia, India, Polonia, Turchia o per gli islamisti che vagheggiano la legge coranica.

Il restringersi di una torta che non può più soddisfare le promesse eradica e svuota di senso la democrazia liberale, che non ha risposte pronte per affrontare il collasso ambientale e il mutamento del paradigma tecnologico. «Nella sua tradizione il liberalismo fa affidamento sulla crescita economica per risolvere magicamente difficoltà sociali e conflitti politici. Il liberalismo riconcilia il proletariato con la borghesia, i credenti con gli atei, i nativi con gli immigrati e gli europei con gli asiatici promettendo a ciascuno una fetta più grande della torta. Con una torta in costante crescita, questo era possibile. Ma la crescita economica non salverà l’ecosistema: è vero proprio il contrario, essa è la causa della crisi ecologica. E la crescita economica non risolverà la rivoluzione tecnologica, perché essa si fonda proprio sull’invenzione di tecnologie sempre più destabilizzanti».

Le domande cruciali possono prescindere dal passato? Il liberalismo saprà reinventarsi come ha fatto dalla rivoluzione americana in poi? Le religioni e il nazionalismo sapranno fornire le risposte che mancano ai liberaldemocratici e usare l’antica saggezza per forgiare una visione aggiornata del mondo? O dobbiamo abbandonare tutto, inclusi i valori di libertà, uguaglianza e pluralismo? Al momento manca un consenso minimo su come rispondere a queste domande. Molti nemmeno sanno formularle o concepirle. «Ci troviamo ancora nel momento della disillusione nichilista e della rabbia, quando la gente ha perso la fede nelle vecchie narrazioni, e prima che ne abbia abbracciata una nuova. Quindi che cosa accadrà? Il primo passo consiste nel mitigare le profezie di una imminente catastrofe e passare dal panico alla perplessità. Il panico è una forma di arroganza. Deriva dall’atteggiamento compiaciuto di chi sa con esattezza dove sta andando il mondo – verso il basso». Se però tocchiamo un tasto dolente, il futuro del lavoro, allora l’attenzione dell’opinione pubblica si risveglierà. «La rivoluzione tecnologica potrebbe in breve tempo estromettere miliardi di esseri umani dal mercato del lavoro, e creare una nuova, enorme classe di individui inutili, provocando sovvertimenti sociali e politici per i quali non esiste ideologia capace di controllarne le conseguenze. La concretissima prospettiva di una disoccupazione di massa – o di una disoccupazione individuale – non lascia nessuno indifferente».

È in atto un cambiamento epocale. «Gli esseri umani hanno due tipi di abilità: fisiche e cognitive. In passato le macchine erano in competizione con gli uomini soprattutto nelle abilità puramente fisiche, mentre gli uomini mantenevano un immenso vantaggio sulle macchine nelle facoltà cognitive. Quando i lavori manuali nel settore agricolo e industriale sono stati automatizzati, nel settore dei servizi sono emersi nuovi lavori che richiedevano quel tipo di abilità cognitive che soltanto gli uomini possedevano: apprendimento, analisi, comunicazione e soprattutto comprensione delle dinamiche emotive umane. L’intelligenza artificiale oggi comincia a superare le prestazioni degli uomini in un numero crescente di competenze e mansioni, inclusa la comprensione delle dinamiche emotive umane». La rete delle intelligenze artificiali, sostenuta dalle scoperte nelle scienze biologiche e sociali, oltrepassa le facoltà di qualunque rete di intelligenze umane, anche le più colte, elaborate e raffinate. La differenza tra intelligenza artificiale e intelligenza umana non è di tipo quantitativo ma qualitativo, perché riguarda la connettività e la possibilità di aggiornamento e di apprendimento delle reti informatizzate. Questo migliorerà molti aspetti della nostra vita, come la sicurezza dei trasporti o le cure mediche. Il guaio è che i computer sono in grado di influenzare i processi decisionali degli individui. L’accento sulla crisi della democrazia va posto, più che sui pericoli presenti, in questo scenario futuro che trascende l’analisi del populismo in senso stretto.

(fine decima puntata – Le prime nove sono state pubblicate sui numeri del 09.03.19 del 16.03.19 del 23.03.19del 30.03.19 del 06/04/19 del 13.04.19 del 20.04.19, del 04.05.19 e dell’11.05.19)

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