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Apologie Paradossali

EUROPA/3 CIVILTÀ

COSTANTE PORTATADINO - 24/05/2019

unione(C) Cari amici, scusatemi se per questa volta farò tutto da solo, un impegno imprevisto mi ha impedito di confrontarmi con Conformi e Desti e avrei comunque dedicato grande parte dell’Apologia ad aspetti informativi, ricavati da fonti neutre rispetto al dibattito partitico. Credo tuttavia che certe notizie aiuteranno a farsi un’idea vicina all’oggettività, nonostante le polemiche di sempre e le correzioni di rotta (strumentali?) compiute da certi partiti in questi ultimi giorni. Infatti anche chi ha per mesi predicato l’uscita dall’euro e dall’Unione, oggi si propone come propugnatore di un pur radicale cambiamento dall’interno della logica economica e politica dell’UE, senza però spiegarne le possibili azioni.

Il primo concetto che intendo ribadire è che l’Europa non è nata da pochi anni, né dai Trattati di Roma del 1957, né da quello di Maastricht del 1992, né da quello di Lisbona che ha surrogato in gran parte la mancata approvazione della Costituzione Europea. Europa è una CIVILTÀ, che in passato ha abbracciato aree anche più vaste di quelle che oggi vengono riconosciute come ‘europee’ dalla geografia fisica e politica, per esempio le altre sponde del Mediterraneo.

In che cosa consiste principalmente il lascito culturale di questa civiltà, largamente esportata in America e in Asia nell’epoca moderna, ma oggi purtroppo minacciato anche all’interno dell’Europa stessa? Ne elenco brevemente i tratti principali, senza poterli declinare come, a beneficio dei lettori più giovani, meriterebbero.

  • La superiorità della persona e dei suoi diritti su ogni genere di potere, compreso quello statale. Basti ricordare che non è stato un compito facile, pensando sia all’era dell’assolutismo sia alle potenti e feroci dittature del novecento. In questo includerei la laicità dello Stato, nonostante qualche incaglio medievale.
  • Da questo deriva il diritto della persona, anche come singolo, allo sviluppo della propria dignità di vita, attraverso la libertà, sostenuta dal diritto a costituire una famiglia, a mantenerla attraverso il lavoro, a svilupparla attraverso l’istruzione, a garantirne il percorso anche nella parte terminale dell’esistenza del singolo attraverso la previdenza e la socialità.
  • La Pace. Questo tema può anche apparire controverso. Sappiamo tutti che le guerre in Europa ci sono sempre state e che le mitigazioni portate dalla civiltà cristiana sono state modeste. Sappiamo che le guerre che chiamiamo ‘mondiali’ sono state innescate da questioni ‘europee’, apparentemente di modesta entità. Tuttavia dopo settant’anni dalla fine della guerra mondiale proprio la presenza di una Unione Europea ha impedito la deflagrazione di un nuovo conflitto globale. È stato grave quello dovuto alla dissoluzione della Jugoslavia e non è trascurabile quello ancora aperto in Ucraina, ma bisogna riconoscere che la pur debole presenza europea ne ha ridotto l’ampiezza e mitigato le conseguenze.
  • L’impegno forse più importante sul piano materiale è stato certamente quello della transizione da una società agricola e frammentata ad una avanzata, industriale e terziaria. Questa transizione ha in passato assorbito la maggior quantità di risorse del Bilancio della UE, attraverso la PAC, politica agricola comunitaria. Ovviamente non sono mancate sperequazioni tra Stato e Stato, ma non riesco ad immaginare come sarebbe stata drammatica questa transizione in Italia in assenza di una politica europea. Analogamente l’impegno ecologico ha assunto la portata odierna anche in Italia grazie all’inserimento nell’orizzonte comunitario.

Ci sono altri meriti e rimangono altre criticità. La più evidente è quella demografica, sia come invecchiamento della popolazione, sia come mancata crescita della stessa, specialmente in confronto a quella dei Paesi meno sviluppati degli altri continenti, da cui nasce, ma solo parzialmente, il problema dell’emigrazione.

Vediamo dunque attraverso la documentazione fornita dall’ISPI, come ed entro quali limiti l’UE può intervenire. (per distinguere il documento dell’ISPI dalle mie considerazioni, lo citerò sempre in corsivo).

 Una prima questione è quanto debba essere grande il bilancio dell’Unione,

ovvero di quanti soldi ci sia bisogno per permettere di realizzare le politiche gestite a livello comunitario. È un tema che ha una evidente valenza politica perché impone di decidere quante risorse sottrarre agli Stati per accentrarle su Bruxelles.

Oggi il bilancio dell’Ue si aggira intorno ai 145 miliardi l’anno, equivalenti a circa l’1% del reddito nazionale lordo (RNL, un dato molto simile al PIL) dei 28 Stati membri. Negli anni Novanta la quota aveva raggiunto l’1,3% del RNL: c’è stata dunque una contrazione, anche se di pochi decimali. In tutto, la spesa attuale è equivalente a circa il 2% della spesa pubblica totale dei 28 membri. In altre parole, per ogni 100 euro di spesa pubblica in Unione europea, solo 2 sono amministrati e gestiti a livello comunitario”.

Mi sembra evidente che sulla base di queste percentuali non possiamo accusare l’UE di svuotarci le tasche o di essere incapace di realizzare quegli scopi che i Paesi membri non ottengono con il 98% delle risorse.

“Una seconda questione verte intorno al tema di come finanziare il bilancio comunitario,ovvero utilizzando quali risorse. A oggi, quasi 7 euro su 10 del bilancio Ue provengono da trasferimenti diretti dai bilanci nazionali sulla base del loro RNL. I restanti 3 euro provengono invece dalle entrate generate dai dazi comuni Ue (1,6 euro su 10) e da una parte delle imposte sui consumi (IVA) nei singoli Paesi (1,2 euro su 10).

Negli anni, diversi studi hanno espresso la forte preferenza per spostare il più possibile le entrate dai trasferimenti diretti degli Stati membri a quelle che l’Ue definisce più propriamente risorse proprie – dazi e IVA. L’idea è quella di “depoliticizzare” il dibattito sul bilancio comunitario, aumentando la percezione delle entrate come risorse “da tutti e per tutti”.

“Spostandoci dal lato delle entrate a quello della spesa, un terzo e altrettanto vivace dibattito verte intorno a quali politiche privilegiare, ovvero per cosa spendere a livello europeo. Oggi le risorse del bilancio comunitario sono destinate soprattutto alla Politica agricola comune (PAC) e ai fondi strutturali e di coesione, che nel periodo 2014-2020 contano rispettivamente per il 42% e il 35% della spesa Ue. Negli ultimi tre decenni c’è stata una significativa evoluzione tra queste due voci di spesa: nel 1992, le spese per la PAC sfioravano il 60% del bilancio Ue, mentre quelle per i fondi strutturali erano vicine al 20% del bilancio. Malgrado il rafforzamento dei fondi strutturali a scapito delle politiche agricole, ancora oggi il bilancio europeo ruota fortemente intorno a queste due voci: a tutti gli “altri programmi” (che includono per esempio le politiche commerciali, quelle sulle migrazioni e le azioni di politica estera) è destinato solo il 16% del bilancio, in aumento solo leggermente rispetto all’11% di trent’anni fa. In futuro, però, questo equilibrio potrebbe modificarsi: a partire dall’autunno di quest’anno, Consiglio e Parlamento dovranno infatti approvare il nuovo Quadro Finanziario Pluriennale (QFP), che definirà le varie voci di spesa dell’UE per il periodo 2021-2027”.

 

 “Una seria criticità nel Quadro Finanziario Pluriennale riguarderà i fondi di coesione per i prossimi sette anni: le risorse destinate alle regioni europee “in via di sviluppo” non solo diminuiranno (v. sopra) ma verranno anche redistribuite in maniera diversa tra gli Stati membri, spostandosi in particolare dalle regioni centro-orientali verso l’area mediterranea. Stando alla proposta della Commissione europea, infatti, Paesi come Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca potrebbero perdere tra il 20% e il 25% dei fondi di coesione a loro destinati; al contrario, la proposta si tradurrebbe in un aumento delle risorse destinate a Grecia (+8%), Italia (+6,5%) e Spagna (+5%).

Quest’ultima decisione è in gran parte giustificata dal diverso andamento delle economie degli Stati membri negli ultimi anni: mentre i Paesi entrati nell’Ue dal 2004 in avanti — in gran parte economicamente arretrati rispetto agli altri membri — hanno registrato tassi di crescita importanti, l’area mediterranea ha invece sofferto la “coda lunga” della crisi economica, con tassi di disoccupazione ancora molto alti e crescita debole o nulla.

Su questo tema e su quello dell’applicazione di diritti civili e democratici, segnatamente da parte di Ungheria e Polonia, rischia di aprirsi una crescente divisione tra i Paesi membri dell’est e dell’ovest. Divisione che, al momento di negoziare il nuovo bilancio, potrebbe sfociare in un conflitto aperto in seno al Consiglio europeo”.

 

Non voglio concludere con la scontata banalità di osservare che il voto europeo non dovrebbe incidere sugli assetti politici italiani, come se perciò potessimo starcene a casa o non assumere un giudizio pertinente ed un comportamento elettorale conseguente. Deve incidere, perché incide di fatto sul nostro presente, sul nostro futuro, ma ancor più che su certi aspetti dell’economia (ho volutamente trascurato il tema del debito pubblico e della funzione di sostegno che la BCE ha esercitato a nostro favore negli ultimi anni, TANTO è NOTO A TUTTI) e sugli aspetti della CIVILTA’ POLITICA, diretta espressione di quella civiltà culturale ed etica che, ripeto, è la natura intrinseca di ciò che chiamiamo Europa.

Il voto ad un partito sinceramente europeista, lascio ai lettori decidere quale, dovrebbe fare premio su ogni altra considerazione di breve periodo e di rancore ingiustificato verso quella parte della classe politica alla quale, troppo comodamente, attribuiamo tutti quei mali sociali di cui invece siamo in buona parte corresponsabili, tutti quanti.

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