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Politica

PIETRE E PAROLE

MANIGLIO BOTTI - 31/05/2019

capoLe parole sono pietre, sia quelle che si pronunciano sia quelle che si affollano nei sub-pensieri. Sicché alla definizione di partiti cosiddetti sovranisti si potrebbe sostituire quella di nazionalisti (lungi da noi un ricordo della parola nazionalsocialista). E la domanda italica – o anche la presunta constatazione – si insinua sempre nei talk show, serpeggia nei social, e anche compare nelle discussioni un po’ triviali un po’ no che si fanno nei bar: ma questo “glorioso” regime salviniano e felpato (supportato dagli ingenui Cinquestelle, nonostante litigi veri o inventati) è un regime fascista? o quasi?

La risposta degli storici e poi della stragrande maggioranza degli italiani che si esprimono, al voto nelle Europee ultime e recenti in circa il 55%,  è chiara: non lo è affatto; il fascismo è finito inequivocabilmente, tragicamente (e qualcuno aggiunge anche per fortuna) negli ultimi giorni di aprile del 1945 a piazzale Loreto a Milano con Benito Mussolini e la sua “corte” appesi a testa ingiù dalle travi di una pensilina di un distributore di benzina.

Caliamo subito il sipario su quelle penose immagini che, a detta di tutti, o di molti, non hanno mai rappresentato il civile pensiero e i sentimenti del popolo italiano.  Ma un brivido resta e corre sul filo della schiena dei politici, e non solo.

La storia, qualunque cosa si dica, non si ripete; e anche dal fascismo – da quella tragica e terribile fine del fascismo – sono trascorsi tanti di quegli anni (settantaquattro per l’esattezza) da far sì che il paragone oggi non si possa manco azzardare. Perché le similitudini non ricorrono tanto al fascismo, alla Resistenza e alla lotta partigiana, alla guerra civile che fu cruenta spesso da entrambe le parti, e nemmeno alle vergognose leggi razziali ideate dal Duce e promulgate dal Re nell’autunno del 1938, inconsapevolmente accostate da una scolaresca – ai giorni nostri – a una legge del Parlamento italiano e riletta con dovizia e cura dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

I termini di paragone forse non vanno nemmeno fatti con quegli elementi che, anni fa, Umberto Eco definì dell’Ur-Fascismo, cioè del fascismo primigenio e universale, perché egli ne identificava i caratteri in alcuni aspetti tecnicamente politici e dunque storici.

Se mai fanno riflettere alcuni aspetti del problema che nel nostro Paese sorgono nei momenti di crisi, di disaffezione nei riguardi della politica vera e partecipata (la scarsa presenza dei cittadini elettori è sempre un dato di cui si dovrebbe tenere conto); peggio: nei momenti di caduta dei valori e – in genere – nei momenti che inevitabilmente si potrebbero chiamare “di stanca”. Il primo e il più importante, un marchio nel nostro gene universale, è il desiderio del capo, cioè l’indicazione di un personaggio da seguire sempre e comunque a pecora, basti che sia lui a decidere e a interpretare gli animi.

Lo si provò, più di una ventina di anni fa ormai, con il pm Antonio Di Pietro, poi con l’accattivante Berlusca, poi con il giovane segretario del Pd Matteo Renzi, che alle Europee del 2014, cinque anni fa dunque, mica nel Paleolitico, faceva assestare il suo partito (il Pd) oltre il quaranta per cento…

Oggi sugli scudi sopravanza Matteo Salvini, il quale si fa largo sempre di più. Sulle schede elettorali non c’era la paroletta italiani o il nome Italia, né a mo’ di tifoseria o di parentela, ma il suo personale cognome. È vero che a un certo punto, magari proprio quando è al diapason, capita che il Capo precipiti ignominiosamente, e che se ne affacci un altro, ma per il momento siamo lì: il Capo ha sempre ragione, nel Capo (capitano a tre stellette o generale che oggi sia diventato) si ripongono tutte le speranze. Come una volta.

Questo sentimento di mettersi nelle mani di un onnipotente leader oscura altri aspetti che inopportunamente si vorrebbero omologare: un certo qual vago disprezzo del parlamentarismo, una ridicolizzazione della stampa ostile, una messa nell’angolo dell’opposizione, qualunque essa sia, e anche la sua demonizzazione, visto che un confino fisico sarebbe improponibile.

E c’è infine un aspetto importante – e diverso – che conferisce al Capo una presenza che trascende nel soprannaturale. Benito Mussolini – si racconta – una volta, mettendosi a braccia conserte, disse: se Dio esiste, mi fulmini in trenta secondi. Dio non lo fulminò, almeno in quel momento, e attese per una ventina d’anni o poco di più.

Oggi il Capo bacia il Rosario, agita il Vangelo. E Dio, che è misericordioso, può forse aspettare. Ma non per sempre, essendo il suo destino, anche quello di un Capo, comune a quello di ogni uomo.

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