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Stili di Vita

NON CEDERE ALLA PAURA

VALERIO CRUGNOLA - 07/06/2019

socialHarari spiega le fortune del populismo digitale con l’allentamento e l’impoverimento dei legami interpersonali diretti. La rete è un placebo che reca un illusorio conforto a diffuse solitudini e al comune sentimento di irrilevanza. Il rischio dell’incontinenza è grande. Il potere di colonizzazione psicosomatica del mondo digitale, ben più forte dell’assuefazione a sostanze nocive o dei disturbi alimentari, è l’aspetto peggiore del degrado dei nostri stili di vita. Tutto ciò che costruisce relazioni reali contrasta il dominio della rete sulle nostre vite. Le comunità virtuali rivelano il loro grado di consistenza, di utilità o di futilità quando tentiamo di materializzarle in un luogo e in un tempo. Se nascono a sostegno di effettive comunità di scopo, se rispettano dei codici non scritti di comportamento e se tengono fermi i limiti del loro spazio d’esistenza e della loro durata, possiamo ritagliarci nelle loro pieghe un ruolo concreto, spendere il tempo a favore dei desideri, degli affetti, delle libere attività e dell’habitat, e rafforzare gli anticorpi contro il populismo.

Non dobbiamo per forza disertare i social networks. Se una salutare umiltà ci immunizzerà dalla bulimia di connessioni, potremo farne un uso parco e cauto. Il populismo è stato favorito dai social networks, ma non è detto che il nesso tra i due fattori sia perenne. «Le persone si ritrovano a vivere vite sempre più solitarie in un pianeta sempre più interconnesso». «L’idea di comunità elaborata da Facebook è forse il primo tentativo esplicito di usare l’intelligenza artificiale per la pianificazione centralizzata di un’ingegnerizzazione sociale su scala planetaria». Un abisso separa le relazioni offline da quelle online. Senza radici reali le comunità virtuali sono effimere. Il corpo resta il perno della vita dei sapiens. Non possiamo perdere il contatto con il corpo e con le relazioni frontali e durevoli che il corpo consente. Non possiamo accettare che ciò che proviamo sia determinato dalle reazioni che suscitiamo online. Facebook non genererà la comunità globale che qualcuno vagheggia. Il tessuto delle nostre relazioni reali è di dimensioni contenute. Non saremo mai il centro del mondo, ma solo un puntino decentrato.

Il rischio di un «hackeraggio degli esseri umani» è reale. Educazione e istruzione dovrebbero aiutarci a contrastarlo. La formazione primaria e secondaria deve anteporre alle conoscenze tecniche le facoltà critico-riflessive, la capacità comunicativa, la cooperazione, la creatività, la flessibilità intellettuale e la consuetudine all’apprendimento autonomo attraverso lo studio delle discipline che fondano ciascun sapere e che consentono di approfondire qualunque studio specialistico. Il sistema formativo sorto con la rivoluzione industriale non è più sufficiente per adempiere al compito perenne di conoscere se stessi non come individui isolati ma come reti di relazioni presenti e passate.

In milioni di anni abbiamo appreso a cooperare a distanza con chi non conosciamo, ma ancora non sappiamo convivere in un’unica turbolenta civiltà globale. La modernità ha adempiuto solo in parte alla razionalizzazione dei processi decisionali dei singoli, dei piccoli gruppi e dei gruppi estesi. Anzi, i social networks aggravano la presunzione di sapere e generano come effetto indesiderato nuove irrazionalità collettive.

Lo stato-nazione ha generato una moderata empatia tra concittadini e lealtà civile. «Il problema nasce quando il patriottismo benevolo si trasforma in sciovinismo ultra-nazionalistico». L’incapacità di affrontare forme più estese di cooperazione trova rifugio in comunità ormai al tramonto. Il nazionalismo «non possiede alcun piano praticabile per gestire il mondo nel suo insieme. Alcuni nazionalisti sperano che il mondo diventi una rete di fortezze, dotate di mura possenti, ma che tra loro intrattengono relazioni non aggressive. Ogni fortezza nazionale proteggerà la propria identità peculiare e i propri interessi, però tutte le fortezze potranno nondimeno cooperare e commerciare pacificamente. Così non ci sarebbero immigrazione, multiculturalismo, élite globali – e nemmeno il rischio di una guerra globale». Le fortezze hanno intrattenuto durevoli relazioni non aggressive solo grazie a una più alta e condivisa centralizzazione del potere militare e fiscale. A propria volta l’isolazionismo è sempre stato un’ideologia deleteria.

I poteri nati dalla cooperazione globale dovranno affrontare la sfida degli armamenti, della tutela ambientale e delle nuove tecnologie: tre minacce letali che nessun governo sovrano può affrontare. Gli armamenti sono, intuitivamente, un pericolo devastante per tutti: nessun paese può ignorarlo. La questione ambientale costituisce una minaccia meno percepibile. Dopo Hiroshima nessuno vorrebbe vedere Venezia o New York incenerite da una bomba nucleare. Pochi invece riescono a immaginarle sommerse dalle acque. Nel Sahel dei governi responsabili potrebbero dotare ogni abitazione di pannelli per l’energia solare, ma la regione resterebbe esposta ai cambiamenti climatici prodotti da altri governi irresponsabili. La maggioranza dei paesi importa petrolio, gas e persino carbone, e sarebbe lieta di liberarsi di questi gravami. Ma chi li produce non vorrebbe privarsi di queste fonti di ricchezza, spesso l’unica disponibile, come per la Russia degli oligarchi. La sfida tecnologica riguarda ogni individuo singolarmente, ma pochi la percepiscono come una minaccia; né lo stato-nazione avrebbe modo di contrastarla. Servono nuove identità e nuove lealtà.

Tra le pessime risposte a queste sfide, il populismo sovranista è la peggiore possibile perché il suo esasperato propagandismo lo priva di immaginazione e di risorse creative davanti ai rischi reali. I populisti vantano la loro forza unificatrice di tipo identitario; in verità spaccano verticalmente in due, come avviene nel Regno Disunito dopo la scelta suicida della Brexit. Nel mondo globale le identità e le appartenenze sono una riesumazione posticcia e artificiosa, e creano grandi danni e pochi vantaggi anche per chi vi riversa il proprio consenso elettorale. Detto ciò, le lealtà locali restano utili se accettano di supportare la lealtà globale. «Ora abbiamo un’ecologia globale, un’economia globale e una scienza globale –, ma siamo ancora bloccati con le sole politiche nazionali. Per avere politiche adeguate dobbiamo o de-globalizzare l’ecologia, l’economia e il progresso della scienza –, oppure dobbiamo globalizzare la politica». La prima opzione è o impossibile o insostenibile: possiamo scegliere solo la seconda. Il nostro dramma è che «abbiamo davanti problemi globali senza avere una comunità globale».

Il problema migratorio secondo Harari va affrontato come un contratto fondato sul reciproco riconoscimento dei diritti e dei doveri delle parti, con costi e benefici per entrambe. Nessun paese può contenere i fenomeni migratori. Il dovere dell’accoglienza avvantaggia chi ospita, perché è meglio legalizzare e gestire i flussi che abbandonarli a se stessi. Molti governi populisti esaltano i respingimenti, ma nei fatti all’integrazione antepongono gli ingressi illegali invisibili che introducono manodopera a basso costo. A loro volta i migranti, in cambio delle migliori opportunità loro accordate, sono tenuti a rispettare le leggi e a condividere i valori fondanti della convivenza del paese ospite, come l’uguaglianza di genere, il pluralismo, la tolleranza e i principi costituzionali dell’ordinamento liberaldemocratico. Le generazioni successive ai contraenti dispongono di uguali diritti e hanno i medesimi doveri. Chi si impegna per l’integrazione o vuole essere accolto deve facilitare la sutura nei dislivelli tra il tempo degli individui e quello dei gruppi. I genitori non inchioderanno i figli alle mentalità del paese d’origine; i paesi non negheranno i diritti di cittadinanza a chi vi è nato e ne parla la lingua. Non si può pretendere da una comunità che adegui le sue mentalità in tempi stretti. Harari bacchetta i teorici della pari dignità delle culture quanto quelli del suprematismo. Un conto è ragionare di musica o di cucina e un altro di subordinazione sessuale o razziale, di principi giuridici, di rifiuto della scienza e di intolleranza. Una mentalità che discrimina, pratica la pena di morte o il servaggio e impone il geocentrismo, il terrapiattismo o il creazionismo, è disfunzionale per ogni convivenza e non equivale a una che si è affermata contro queste logiche. «Oggi non è chiaro se l’Europa possa trovare un percorso intermedio che le consenta di mantenere le porte aperte agli stranieri senza farsi destabilizzare da coloro che non condividono i suoi valori». La sfida va raccolta. Se fosse persa dovremmo concludere che i valori di libertà e di tolleranza sono necessari ma non sufficienti per risolvere i conflitti.

Le religioni non sembrano avere soluzioni per i problemi del XXI secolo, ma possono aggravarli se mantengono un residuo potere identitario e se sono permeabili al populismo sovranista. La fede religiosa non è né una condizione necessaria per la moralità né un suo rafforzativo. Solo la visione positiva e attiva della laicità è il principio normativo che consente di convivere in un mondo pluralistico e ibrido. Il vaccino della laicità si completa con lo scetticismo per tutelarci dalle ideologie, dall’eccesso di ottimismo e dai nuovi integralismi. Il codice etico della laicità promuove i valori democratici delle istituzioni scientifiche e politiche, quali l’accertamento reciproco della verità, la compassione, la libertà, il coraggio e la responsabilità. La laicità non confonde verità e fede; non ha dogmi o libri sacri; coglie la sofferenza degli altri senza discriminazioni; non vanta superiorità e supremazie; coglie la responsabilità dei singoli e dei gruppi senza imporla dall’esterno in base a obbedienti osservanze; non teme l’ignoto; accetta la fallibilità; sa che ogni conquista è reversibile e preziosa. Laicità e democrazia liberale sono due lati della medesima medaglia; o si sostengono insieme o cadono insieme.

Non bisogna cedere alla paura. Il terrorismo è una spettacolarizzazione estrema della politica, demanda ai suoi avversari ogni decisione strategica, calcola solo l’impatto emotivo dei propri attacchi simbolici, conta su reazioni spropositate e ha nella paura altrui la sua arma migliore. Di tutte le risposte, il ben calcolato isterismo populista è la peggiore perché, pur di opporre al teatro del terrore il teatro della sicurezza, invoca sia una violenza interna spropositata da parte dello stato, sia una violenza esterna che di fatto fomenta guerre in luogo della cooperazione. «È compito di ogni cittadino liberare la sua immaginazione dai terroristi, e ricordare le reali dimensioni di questa intimidazione. Se reagiamo in modo equilibrato e freddo il terrorismo sarà sconfitto». La paura, al contrario, andrebbe sollecitata per fugare i venti di guerra scatenati dall’attuale sistema policentrico fondato sul bullismo dei sovranisti. La guerra distrugge ma non genera più risorse sostitutive, come l’accaparramento di territori, materie prime e vantaggi strategici. «Non esistono miniere di silicio nella Silicon Valley».

 

(fine tredicesima puntata – Le prime dodici sono state pubblicate sui numeri del 09.03.19 del 16.03.19 del 23.03.19del 30.03.19 del 06/04/19 del 13.04.19 del 20.04.19, del 04.05.19, dell’11.05.19, del 18.05.19, del 25.05.19 e dell 1.06.19).

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