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Editoriale

CHIAMATA

MASSIMO LODI - 12/07/2019

giuseppe-salaMilano, Palazzo Reale, stanza delle otto colonne. Un mezzogiorno di calura greve, un annuncio di colorata leggerezza. Grazie al Guggenheim e all’organizzazione Skira, qui alloggerà una rassegna de luxe: “La collezione Thannhauser – Da Van Gogh a Picasso”. Capolavori nel segno, oltre ai due citati, di Braque, Degas, Cezanne, Monet, Gauguin, Matisse, Kandinsky eccetera. Appuntamento a ottobre, ma intanto si annuncia il grand’evento. Al tavolo di presentazione gli esperti, tra di loro fa l’ospite e l’ospitante il sindaco Sala. Gli riesce naturaliter di catturare una forte attenzione, perché nelle poche parole pronunziate colloca il tema specifico (la maxiofferta di bellezze pittoriche) nello scenario generale (il quadro dell’Italia attuale/globale).

La cultura -spiega- va posta in cima alla graduatoria dei valori da perseguire nel contemporaneismo della rivoluzione mondiale. Non è solo un settore da tutelare e arricchire, è una modalità del saper vivere. Oggi da attivare h24, data l’epoca e còlti gli umori. Chiaro il messaggio: bisogna alzare lo sguardo, capire il vicino e guardare lontano. Attenzione però al luogo comune: non basta allargare, accogliere, integrare. Cioè avere una visione orizzontale della società. Appare indispensabile affiancarvi un senso di verticalità, osservare dall’alto quanto vi sta sotto, comprenderne le caratteristiche singole e d’insieme, compiere di conseguenza le scelte strategiche per progredire senza strappi ed esclusioni. Buonismo? Nient’affatto. Realismo.

Sala evita dettagliate/superflue spiegazioni. Però le fa intendere bene, benissimo. Non è la prima volta che esibisce un carisma superiore a quello, sia pure importante, di sindaco d’una metropoli più europea che italiana, più internazionale che nazionale, più di modello avanguardista che d’inseguimento alle altre. Parla cioè, chissà quanto a sua insaputa, come leader d’un rassemblement politico che ambisce a guidare il cambiamento (il cambiamento vero) del Paese caduto in penoso regresso.

In parole diverse: ecco l’uomo al quale il Pd, e chi vi si alleerà, farebbe ottima cosa ad affidare la rappresentanza di milioni d’elettori che rifiutano il populismo/sovranismo e però non riescono a scacciare la delusione verso un centrosinistra incapace di rinnovare, trasformare, riformare quando ha avuto i voti e i mezzi per farlo.

Certo, Sala sembra riluttante al proposito di non candidarsi a un secondo mandato di sindaco, ma se verrà il momento in cui gl’interessi dell’Italia saranno prevalenti sulle necessità di Milano, la sua chiamata non potrà mancare. E la risposta è immaginabile/auspicabile che non sia di diniego. Del resto egli ha un passato da manager abituato a privilegiare lo spirito di servizio, e dunque sarà possibile convincerlo ad accettare. Purché, ovviamente, il Pd metta da parte correntismi, gelosie, ripicche e il resto del mediocre spettacolo che -interrottosi subito dopo la nomina di Zingaretti a segretario- ha riconquistato la scena di recente. Il sindaco di Milano possiede l’arte di governare, per quale motivo si dovrebbe rinunziare a metterne in mostra il talento?

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