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Società

TURISTI PER CASO

MANIGLIO BOTTI - 26/07/2019

corsomatteottivareseSi fa presto a dire “vocazione turistica”, parlando della città di Varese. È quasi un tormentone che si dipana ormai da ben più di un secolo: se è vero che nel primo numero del giornale Cronaca Prealpina il giovane direttore Giovanni Bagaini pubblicava in prima pagina un ampio articolo intitolato proprio “Tourisme”, alla francese, come usava allora, pieno di constatazioni e di buoni propositi.

 Certo, la situazione negli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, era di gran lunga diversa – per esempio – da quella che si andò configurando subito dopo la seconda guerra mondiale, quando la città – pur mantenendo intatti i suoi aneliti di vocazione – fece poi scelte determinanti e non indirizzate nel senso auspicato.

 Sono noti i fasti della “Varese turistica” di un secolo fa: il Grand Hotel e il Palace, i capolavori liberty del Sommaruga, le funicolari, i “tramini – il verde e il bianco – che attraversavano il borgo, un ippodromo tra i più famosi in Italia, altri alberghi e siti divenuti meta preferenziale dei personaggi del gotha europeo, un Sacro Monte centro fondamentale di religione e di cultura nel panorama prealpino, una riva lacustre che, se non caratteristica come quella di Como, di cui allora si faceva parte, sarebbe potuta divenire nel tempo una piccola Alassio…

La Versailles di Milano si diceva e si scriveva compiaciuti parlando di Varese.

 Negli anni Cinquanta del Novecento – rivanghiamo pure – fu come se i varesini stessi con degli acuminatissi spilloni avessero inconsapevolmente bucato la loro mongolfiera turistica, che miseramente si afflosciò. Tanto che poi nell’altro mezzo secolo a seguire le cose non sono più cambiate.

 L’analisi di quanto accaduto è complessa. Ma si possono azzardare alcune ipotesi. La principale, a giudizio personale, è che la città cominciò a pagare il disegno – irraggiungibile – della moglie ubriaca e della botte sempre piena. L’ampiezza e la profondità del portafoglio infatti non corrispondono alla quiete e al rigetto dei corpi estranei (i turisti). La cultura divenne non quella dei libri, dei dibattiti, dei teatri, ma quella del lavoro e delle scelte industriali.

Inutile (e impossibile) fare paragoni con alcune città del Veneto o della Toscana o della Romagna che hanno costruito sul turismo – e anche su un certo sacrificio dei residenti – le loro fortune. Tuttavia v’è da domandarsi verso quali “obiettivi turistici” si vuole tendere quando verso le nove di sera d’estate (e in altri mesi dell’anno anche prima) alcuni tra i più rinomati caffè del centro tolgono in tutta fretta baracca e burattini, i negozi tirano giù le saracinesche, i “turisti per caso” (che spesso non sono nemmeno pochi) vagano abbandonati a sé stessi e la città diventa una preoccupante “città del silenzio”, ma non in senso dannunziano perché forse rinnega anche la propria storia.

 Chi resiste – pensiamo, nel centro cittadino, al “triangolo della movida” – è osteggiato come reprobo. Il principale sito per posteggiare l’auto chiude inesorabilmente all’una, sicché molti sono costretti a scappare come Cenerentola che vede ritrasformarsi in zucca la sua fiabesca carrozza.

 Il turista è colui che paga, naturalmente, ma che non rompe le scatole, non beve nemmeno una birra o una CocaCola e che va a letto con le galline. Il Sacro Monte, la cara amatissima montagna, è talvolta un luogo dove fare jogging e portare a spasso il cane in solitudine; la Schiranna un angolo di Svizzera interna alle cinque del mattino.

Se alzi la voce anche per chiamare una fanciulla qualcuno avvisa le guardie.

 E così il turista – sia l’occasionale sia il presumibile “stanziale” – se ne va. Prende e traghetta subito sull’altra sponda del Lago Maggiore, tanto per non andare lontanissimi, in cerca di vita e di gente amica.

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