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Cultura

DISPUTA SUGLI UNIVERSALI

LIVIO GHIRINGHELLI - 11/10/2019

tommaso-aquino1Il problema degli universali sorge nel X secolo, nascendo dall’Introduzione dell’Isagoge di Porfirio (233-305 d.C.) (commento alle Categorie di Aristotele, su traduzione e commento di Boezio) e verte sui predicati, che si possono attribuire a più soggetti, come i generi e le specie.

 In relazione si pongono tre quesiti: sono reali o esistono soltanto nella nostra mente? Se esistono nella realtà, sono corporei o incorporei? Sono separati o uniti agli oggetti corporei designati? Il problema dal campo della logica si sposta a quello della metafisica, al discorso filosofico-teologico.

Anselmo d’Aosta (1033-1109) si pone su una linea di realismo di stampo platonico: le vere essenze delle cose coincidono con le idee esemplari contenute nella mente del Creatore. Gli universali si configurano ante rem, come nelle idee platoniche e diventano operanti nelle cose stesse in re, attraverso la creazione. Invece Roscellino di Compiègne (1050-1120), filosofo e teologo francese, imposta la questione nei termini di un nominalismo radicale: gli universali sono puri flatus vocis, puri segni convenzionali o nomi delle cose.

 Ne conseguono la vanificazione d’ogni distinzione tra le tre Persone della Trinità (puri nomi) e la negazione dell’unità della sostanza divina (triteismo), dottrina condannata nel Concilio di Soissons del 1092. L’umanità si risolve tutta in quella dei singoli uomini.

 Guglielmo di Champeaux (1070-1121) è invece sostenitore di un realismo radicale o accentuato, per cui i generi e le specie hanno realtà sostanziale e formano l’essenza comune degli individui, che divergerebbero solo negli accidenti.

 Guglielmo ripiega poi sulla tesi che nei singoli individui ci sarebbe solo una identità di indifferenza. Giovanni di Salisbury (1110-1180), filosofo inglese, condivide il realismo moderato di Aristotele: gli universali esistono nella nostra mente, che li astrae dalle cose, prendendo a considerare alcuni aspetti, mentre prescinde dagli altri.

 Per Abelardo (1079-1142) deve prevalere una soluzione concettualistica. L’universalità è attribuita alle parole, quando vengono assunte non nella loro singolarità, bensì nella funzione logica. Non la parola vox (suono), ch’è dei nominalisti, bensì sermo (significato logico e linguistico) deve essere messa in rilievo.

 Nulla pertanto c’è di universale nella realtà; l’universale, vox significativa, è una rappresentazione mentale. Si prendono in considerazione gli status, in cui le cose individuali convengono per similitudine, astraendo dagli aspetti differenti. Il significato dell’universale è quello delle cose attraverso la denominazione.

 In Alberto Magno (1205-1280) e Tommaso d’Aquino (1221-1274) tre sono le ipotesi accolte al contempo: 1) l’universale è una realtà che precede le cose individuali (ante rem); 2) è nelle cose ); 2) è nelle cose (in re); 3) deriva dalle cose per astrazione (post rem).

 Gli universali sono nella mente divina, preesistenti alla creazione; sono in re, perché Dio con la creazione li ha posti nelle cose come loro essenze; sono post rem grazie al processo astrattivo a posteriori, venendo trasformati in immagini mentali, concetti e infine in parole e segni convenzionali.

 Per Guglielmo di Ockam infine deve essere rifiutata ogni ipotesi di soluzione realistica. La realtà è tutta individuale, l’universalità è il risultato dell’azione dell’intelletto, che raccoglie sotto un unico segno mentale (il concetto generico o specifico) gli individui contraddistinti da particolari gradi di somiglianza.

 Il suo è un concettualismo di stampo realistico: l’universale è per lui frutto di una convenzione arbitraria, ma segno naturale delle cose particolari. La capacità significativa dei concetti è garantita dalla supposizione, in particolare dalla supposizione personale.

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