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Gente comune

PARLAVA POCO

DEDO ROSSI - 25/10/2019

germiIl Binda faceva il ferroviere. Credo lavorasse sui binari: li fissava alle traversine, controllava che i bulloni fossero sempre saldi, riavvitava con un’enorme chiave a T quelli che avevano un po’ di gioco. Non so quale fosse il suo compito preciso.

Parlava poco, il Binda. Ma questo, negli uomini della sua età, era cosa normale. Non ho neppure l’idea di quanti anni potesse avere, ma l’ho sempre giudicato molto vecchio, per via delle rughe profonde orizzontali sulla fronte e per i capelli e i baffi bianchi. Era magro, secco, un fascio di nervi. Sembrava uscito dal film di Germi. Mi sembrava avesse una forza incredibile. Sapeva stringere tra le dita una mela fino a romperla. Sapeva fare ogni lavoro: tirava il collo alle galline e le finiva con un colpo secco, quasi impercettibile.

“Ma soffre?”

“ Non se ne accorge neanche”, rispondeva serio. “E le galline sono nate per morire”.

Poi tranciava la testa ai conigli, neppure sfiorato da dubbi sulla loro sofferenza. Ogni cosa, nella vita aveva il suo posto e il suo ruolo. E quello dei conigli era quello di diventare cibo.

Sapeva fare anche molte altre cose: innestare le piante, far accoppiare i cani, capire la verdura adatta ad ogni terreno, distinguere il sesso dei pulcini, far sparire l’odore d’urina di gatto.

Ma il suo vero piacere, dove aveva la coscienza di eccellere, era nel raccogliere i funghi.

Solo quando si parlava di funghi, gli compariva negli occhi come una luce sottile, non una lacrima, ci mancherebbe, ma un velo liquido che gli cambiava lo sguardo.

Conosceva tutto dei funghi: i luoghi, le varietà, i segreti, il tempo, l’umidità, le lune, il vento, gli umori del terreno, i giorni giusti, le vicinanze, il modo di pulirli, di conservarli, di abbinarli ai cibi, di mangiarli. Insomma: tutto, soprattutto i segreti.

Nella stagione giusta, all’alba era già in piedi, pronto per uscire. Partiva in bicicletta da Belforte, con un cesto grande di vimini legato sul portapacchi posteriore, coperto da un asciugapiatti di cotone. Nessun rumore.

Dopo poco più di un’ora era di ritorno: il cesto pieno di funghi.

Dove andasse in così poco tempo, nessuno lo sapeva. Poteva raggiungere la periferia di Varese, i boschi sopra San Fermo o quelli verso Cantello o tutt’al più le prime pendici del Montallegro.

La moglie, sempre in nero, con un grembiule a fiori smorti dai lavaggi, si vedeva poco in giro, nel quartiere. Era riservata e trascorreva il tempo in casa.

Vivevano in due locali piccoli, al terzo piano della casa dei Lanfranconi a Belforte, dopo la rotonda.

Il Binda aveva simpatia per Renzo, anzi “Renzino”, il figlio del ragionier Lanfranconi. Ma era una simpatia che non mutava lo sguardo burbero e non aumentava di numero le parole necessarie.

Il bambino lo chiamava “nonno” e questo forse muoveva qualche corda interiore.

Binda non parlava se non a monosillabi. E solo se era indispensabile. E tanto meno rideva. Rispondeva brevi parole, essenziali e precise, a tutte le domande. Nessuna domanda del bambino veniva lasciata senza risposta. Poi gli passava quella mano grande e ruvida sui capelli e si allontanava per tornare al suo lavoro interrotto.

Renzino non chiedeva di più. Era un bambino silenzioso, di quei bambini che stanno fermi dove li si mette. Taceva quando gli dicevano di tacere ed era capace di giochi solitari. Ma non era triste e apprezzava la compagnia di altri bambini, quando capitava.

Quando Renzino iniziò le elementari i genitori chiesero con gentilezza di chiamarlo, da quel momento in poi, Renzo. E il Binda si adeguò senza commentare.

Una volta – era inverno – Renzo salì a casa del Binda. Non l’aveva mai fatto in tanti anni, perché gli avevano insegnato a non andare in casa d’altri se non invitato.

Era salito perché aveva trovato in cortile un rotolo di nastro isolante e gli era sembrato giusto portarlo al Binda, perché poteva essere solo suo.

Impugnò la maniglia, aprì la porta lentamente. La moglie lo invitò ad entrare. Il Binda prese il rotolo dalla mano di Renzo.

“ Ecco dov’era finito.”

La cucina aveva una credenza verniciata di grigio. Anche le maniglie e le cerniere erano verniciate di grigio. Le ante erano a vetro e dentro, lungo tutti i tre ripiani, decine e decine di vasetti di funghi sott’olio. E poi ancora funghi i secchi in sacchetti e altri vasi di funghi sconosciuti e diversi.

Renzo restò a guardarli.

Binda se ne accorse e gli mostrò i porcini, in prima fila, con i loro bocconi carnosi e sani. Poi fece notare gli altri vasetti, con funghi diversi. Di tutti sapeva il nome dialettale, ma anche quello italiano e di alcuni perfino quello latino, severo e importante, che pronunciava con una severa solennità nella voce, più baritonale e rispettosa.

Ma il Binda quel giorno si spinse oltre, dove non avrebbe mai pensato.

Quest’autunno ti porto con me e ti insegno i funghi. Ti va? “

Renzo face un segno di approvazione con la testa. E stava a sentire gli strani nomi dei funghi per curiosità e per educazione. “ Si, mi insegni i funghi”, rispose.

Renzo era in preda ad una allegra euforia, sia pur contenuta, come si fosse avvicinato ad un nuovo gioco, che prometteva giorni colmi e felici.

La moglie guardava stupita fingendo indifferenza. Non aveva sentito mai il Binda pronunciare tante parole tutte insieme. E non gli vedeva quel lampo negli occhi da chissà quando.

Poi parlò delle russule, delle mazze di tamburo (“solo il cappello, ricordalo, solo il cappello. Impanato è come una bistecca”), dei chiodini, dei “leguratt”.

Ma quando parlò dell’amanita, la voce si fece così seria e grave che Renzo si fermò di colpo. Si sedette con le mani sul tavolo, con lo sguardo fisso verso il Binda.

L’amanita è assassina. Non va mangiata mai. Parlo dell’amanita falloide. Ma va rispettata perché se Domineddio l’ha fatta a qualcosa serve. Domineddio non fa mai niente per niente”

Renzo non aveva aperto bocca. La moglie del Binda restava ferma, consapevole di essere testimone di un momento raro della loro lunga vita di coppia.

Poi il Binda si era fermato per qualche secondo. Renzo era in attesa, come aspettando la conclusione di una favola.

I funghi sono come gli uomini. Solo se li osservi bene li conosci. Ci sono funghi buoni e funghi non buoni. Ma quelli non buoni da mangiare non sono funghi cattivi. Sono come gli uomini, i funghi. Come gli uomini.”

Passò l’anno e in autunno il Binda partiva come sempre di mattina presto e tornava un’ora dopo con il cesto pieno. Binda aspettava. Ma Renzo non aveva più chiesto di “imparare i funghi”. E lui, il Binda, non glielo aveva ricordato.

Binda partiva e tornava. Metteva funghi sott’olio, li faceva cucinare freschi, li faceva seccare. Tutto come prima. I ragazzi sono ragazzi, si sarà detto. Dei funghi, poi, cosa può interessare in fondo ad un ragazzo, avrà pensato.

Il Binda finì in ospedale che era proprio il due novembre. Era presto. Cominciavano ad arrivare i primi operai delle Officine Pontiggia, in bicicletta, con le loro tute blu e il basco in testa. Sopra la tuta una giacca o un maglione più pesante. C’era una nebbia morbida e vennero a prenderlo con un’ambulanza senza le sirene. I tigli del viale avevano perso le foglie da tempo e si faticava a vedere fino al monte Generoso.

Non è niente di grave – diceva la moglie – a giorni me lo mandano a casa. Lavora troppo.”

Restò in ospedale per diverse settimane. La moglie partiva ogni giorno a piedi verso le undici, per essere all’ingresso alle dodici, quando aprivano i cancelli per i parenti. Nella borsa metteva sempre qualcosa, una maglia pulita, delle mutande, delle calze, due fazzoletti perché non si sa mai.

Il Binda uscì dall’ospedale il quattro dicembre, giorno di santa Barbara.

E la moglie diceva che non aveva più la testa per “insegnare i funghi”.

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