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Il Mohicano

VISTI DA VICINO

ROCCO CORDI' - 08/11/2019

muroChe quella sera del 9 novembre di trent’anni fa stesse accadendo qualcosa di straordinario lo si era capito subito, fin dalle prime notizie provenienti da Berlino. Migliaia di berlinesi dell’Est avevano raggiunto i posti di passaggio verso Ovest a ridosso di quel muro che dal 1961 aveva diviso in due – simbolicamente e fisicamente – non solo Berlino e la Germania, ma l’Europa intera. Qualche ora prima il Ministro della propaganda della Germania-Est, aveva annunciato l’apertura dei confini dando il via di fatto all’evento da tutti conosciuto come “crollo del muro di Berlino”. Un passaggio storico salutato, allora, come l’inizio di una nuova era.

In quel momento però l’unica cosa certa che appariva ai più era la fine della “guerra fredda” e il superamento della lunga stagione segnata dall’accordo di Jalta. Accordo sottoscritto nel 1945 da Stalin (URSS), Roosevelt (USA) e Churchill (Gran Bretagna). Un “patto” che ha consentito sì una pace duratura, ma al prezzo della divisione della Germania, dell’Europa e del mondo in “zone di influenza” immodificabili.

La fine di quell’equilibrio postbellico, “garantito” per decenni da una folle corsa al riarmo, con il nucleare in posizione dominante, non comincia però nel novembre dell’89 ma nel marzo del 1985 quando al vertice del Cremlino si insedia Mikhail Gorbaciov. È lui a proporsi la missione impossibile di risollevare le sorti di un Paese in preda ad una crisi economica e sociale che un gruppo dirigente e un partito da tempo sclerotizzati non sono più in grado di governare.

Glasnost (trasparenza politica) e perestroika (riforma economica e sociale) sono le sue parole d’ordine che, all’interno dell’Urss, si traducono in proposte concrete volte a trasformare l’economia e a produrre un profondo rinnovamento nella stessa gestione del potere. Un messaggio chiaro che nei “paesi del blocco sovietico” viene recepito come un via libera a decidere ciascuno del proprio destino in piena libertà. Messaggio accompagnato dal gesto concreto del progressivo ritiro dei soldati dell’Armata rossa. Il sommovimento è grande come pure lo sono le forze che si oppongono al cambiamento o che ne hanno in mente uno di segno opposto.

Da Segretario provinciale del PCI (1987-1990) ho vissuto quegli eventi molto da vicino e con l’attenzione propria di un partito che, pur avendo ormai da tempo preso le distanze da quel “modello”, avvertiva l’importanza dei cambiamenti in atto e gli effetti positivi che la fine della “guerra fredda” avrebbe potuto produrre nello scenario mondiale.

Tra il 31 di gennaio e il 7 febbraio del 1988 ho potuto constatare di persona quanto fosse ardua la prova di Gorbaciov. Facevo parte di una delegazione ristrettissima (eravamo in tre) che per una settimana tra Leningrado e Mosca doveva incontrarsi con soviet di fabbrica e di quartiere, dirigenti di partito locali e regionali. Al termine di questi incontri siamo stati ricevuti al Cremlino da Vadim Zagladin, braccio destro di Gorbaciov e attento osservatore di quanto accadeva in Italia e nel resto dell’Europa. Noi volevamo sapere cosa stava accadendo in URSS, loro capire di più sul travaglio del PCI e le scelte del nostro XVII Congresso in cui il PCI di definiva “parte integrante della sinistra europea”.

Era già in atto la glàsnost (trasparenza politica). Il pieno riconoscimento cioè di libertà individuali, di espressione politica e religiosa, fino a quel momento negate. Questo ci consentiva di confrontarci in modo “franco e leale”, come si direbbe in linguaggio diplomatico, cogliendo tra i nostri interlocutori contraddizioni e contrasti di non poco conto. Il segno di una crisi in cui aspettative e timori, innovazione e conservazione, convivono uno di fronte all’altro senza trovare una via d’uscita comune. Una situazione che faceva tornare in mente quel passo dei Quaderni in cui Gramsci affermava: “… la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

Un impressione confermata anche da Zagladin quando apertamente ci disse che la perestroika (la grande riforma) incontrava due ostacoli rilevanti: 1) il burocratismo, perché la “novità” metteva in discussione convinzioni e pratiche consolidate e tagliava pure il 50% dei funzionari statali detentori veri del potere; 2) il “partito-stato” del quale si voleva lo smantellamento con un cambiamento radicale dei suoi scopi e finalità.

Se fino a ieri bisognava ingraziarsi il partito per assumere qualsiasi responsabilità (alimentando così opportunismi e favoritismi) ora si proponeva l’elezione diretta ad ogni livello. Se fino ieri eri deresponsabilizzato dalla gestione verticistica e autoritaria ora, in ogni campo, dovevi rispondere direttamente del tuo lavoro e dei risultati. Uno scontro aperto dunque tra visioni e interessi anche opposte che proseguirà fino all’agosto 1991 quando Boris Eltsin, Presidente della Federazione Russa, approfittando del fallito colpo di stato, tentato da un gruppo di avventurieri, si mise alla testa di tutti gli avversari di Gorbaciov, prima isolandolo, poi, a dicembre, costringendolo alle dimissioni.

Nel frattempo però, tra l’89 e il ’91, in tutti i Paesi dell’est presero corpo e si svilupparono movimenti di massa che, grazie alle aperture di Gorbaciov, non ebbero più nulla da temere nel preparare la loro autonomia da Mosca. Prima del crollo del muro, settembre”89, c’è la formazione in Polonia del primo governo con alla guida un non-comunista. Qualche mese dopo saranno le Repubbliche baltiche a proclamare l’indipendenza, poi toccherà all’Ucraina e tutti gli altri a seguire. La dissoluzione dell’Urss è datata 25 dicembre 1991, giorno in cui dopo 74 anni verrà ammainata dal Cremlino la bandiera sovietica per lasciare il posto a quella bianco/rossa/blu della Federazione Russa, ripescata negli archivi degli zar.

Degli effetti prodotti da questi sommovimenti in Italia e, in particolare, nel “mio” PCI parlerò nel prossimo articolo.

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