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Sport

IO, ARTIGLIO

FABIO GANDINI - 08/11/2019

Attilio Caja

Attilio Caja

L’empireo è lì, a due passi ben distesi da compiere, meta di una breve gara di resistenza ancora in fieri: se nel 2022 Attilio Caja dovesse giungere ancora saldamente in sella alla panchina della Pallacanestro Varese, come effettivamente da contratto firmato la scorsa primavera, salirebbe sul podio degli allenatori più “longevi” della storia del glorioso sodalizio cestistico varesino. Sette stagioni: solo Vittorio Tracuzzi, pioniere di un basket colorato di bianco e di nero e comandante in capo del secondo scudetto della saga (stagione 1963-1964), e Dodo Rusconi, bandiera issata prima sul parquet e poi – in tre decenni differenti – là dove si prendono le tecniche decisioni, avrebbero a quel punto fatto meglio. Già oggi, con cinque annate archiviate negli annuari “baskettari”, Caja ha superato nomi che hanno contribuito a mettere pietre fondanti dell’epopea, come Rico Garbosi, Nico Messina, AzaNikolic, Sandro Gamba e Riccardo Sales.

Chi avrebbe mai potuto vaticinare – in questo medioevo bosino della palla a spicchi, era di successi che a differenza dell’insigne passato sono destinati a rimanere sogni, era di meteore e mestieranti, era che fagocita ogni professionalità sull’altare della mancanza di pecunia – l’avvento di un coach capace di entrare prepotentemente nell’elenco dei notabili di quello che rimane l’unico, vero, vanto sportivo cittadino? Non sono solo i numeri a dipingere l’affresco: a corroborare il prodotto ci pensano anche i risultati. 53,8% di vittorie totali (di fatto l’Attilio Caja varesino è un vincente), salvezze – unici obiettivi ragionevolmente da dichiarare, oggi come ieri – raggiunte senza alcun patema d’animo, l’incredibile ed eccezionale (nel senso di inedita nella storia del basket italiano) cavalcata che due stagioni or sono ha condotto i biancorossi – a suon di scalpi avversari – dall’ultimo al sesto posto della classifica in un solo girone, con annessi playoff che mancavano da cinque anni sotto al Sacro Monte.

La favola di questo presunto “imbucato” nel pantheon inizia al tramonto del penultimo decennio del secolo scorso. È il 1988 quando il rilevatore tributario Caja – che da tale incarico erediterà l’amore per la precisione e parte della sua inflessibilità – rinuncia a un contratto a tempo indeterminato offertogli dal Comune di Pavia per tuffarsi da precario nella pallacanestro: troppo seduttrice quella passione costruita in anni da giocatore amatoriale e poi da allenatore delle giovanili per rimanere ancorato a scartoffie e morosi delle tasse. Di rigore quasi letterario l’incontro con un maestro: nel suo caso si va da Tonino Zorzi, colui che gli donerà quella strana commistione tecnica tra disciplina e fantasia che sarà la cifra della sua carriera e che rappresenta il primo intreccio con la Varese del basket (dove il Paròn ha giostrato da campione negli anni 60). Posta la base, lui ci mette del suo: conoscenza quasi enciclopedica dei meccanismi cestistici, insaziabile curiosità (noi cronisti la definiremmo “da giornalista”), inclinazione a considerare il proprio lavoro alla stregua di un marine per impegno, concentrazione e dedizione, autorevolezza che talvolta sconfina nell’autoritarismo e un carattere di ferro che non guarda in faccia nessuno, che non si gira mai dall’altra parte per non sentire, che è capace di tormentarti le viscere fino al raggiungimento dell’obiettivo sperato, sia esso uno scivolamento difensivo o un taglio a canestro fatto come Dio comanda.

«Io sono duro con me stesso, non capisco perché non dovrei esserlo con gli altri. Pretendo da me, pretendo dagli altri». Il passaggio da Attilio ad Artiglio, soprannome che diventerà un marchio di garanzia (nel bene dei presidenti che si affideranno a lui e nel male di avversari e inevitabili detrattori) è compiuto. Durante la prima parte del suo volo professionale riesce a planare anche su grandi piazze – Roma, Pesaro e Milano su tutte – pur atterrando sempre un attimo prima (o un attimo dopo) per riuscire a vincere qualcosa. Poi, anche suo malgrado, si specializza, diventando l’amara ma utile medicina da ingurgitare per le compagini in difficoltà. Napoli, Roseto, Udine, Rimini, Cremona: o son salvezze insperate conquistate a suon di rivoluzioni tecniche e comportamentali, o son tregende che si acuiscono, perché – comunque sia – il nostro non è uno che passa inosservato. L’ingiustizia è che questo maestro di basket come non ne fanno più, allenatore considerato universalmente tra i più preparati del panorama corrente, con il trascorrere degli anni viene etichettato, ghettizzato nelle scelte di inizio campionato per poi essere chiamato di nascosto da proprietari e dirigenti alla settima sconfitta di fila: nessuno si azzarda a mettergli in mano un calamaio e una pagina intonsa, anche ben oltre le sue “colpe” di personaggio non sempre facile da gestire.

Varese, a febbraio 2015, lo interpella con gli stessi intenti: serve uno affidabile per rimettere insieme le macerie lasciate dal terremoto Pozzecco. L’Artiglio conduce la barca in porto senza strappi, poi viene accantonato dalle errate valutazioni di un presidente, Stefano Coppa, che si dovrà amaramente pentire delle sue scommesse. Il letto del fiume, galantuomo, gli fa scorrere davanti una nuova opportunità un anno e mezzo dopo: quella stessa società che lo aveva usato e poi gettato nel rudo – società dove nel frattempo è cambiato tutto o quasi e che ha ridato le redini a uno dei suoi padri più fulgidi: Toto Bulgheroni – lo richiama ad un nuovo potenziale capezzale. Il prosieguo lo avete già letto – lo potete leggere tutt’ora – nelle ultime pagine del libro. Un libro che adesso reca il suo volto in copertina, simbolo di una vecchia nobile ormai quasi irrimediabilmente decaduta e vittima del disinteresse imprenditoriale, che resiste, miete caduti all’insegna di una difesa spettacolare e regala domenicali soddisfazioni ai suoi tifosi, grati al loro condottiero per saper donare un’identità precisa e pugnante a tutte le congreghe di giocatori che si alternano sotto la sua guida.

In fondo, gli storiografi ce lo hanno insegnato, anche nelle età di mezzo ci può essere luce.

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