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Cultura

VERDONE, IL BAMBINO ENTUSIASTA

LUISA NEGRI - 31/03/2012

Il bambino entusiasta raccontato da Verdone nel suo libro autobiografico “La casa sopra i Portici” non è lo stesso Carletto, per usare il nomignolo di famiglia del regista, ma è suo padre, lo stimatissimo professor Mario Verdone, docente di storia del cinema e noto critico d’arte. L’implacabile e puntigliosa memoria narrativa del figlio lo coglie nei cinema dai sedili in velluto rosso degli anni Cinquanta, ormai adulto spettatore di film western e già capofamiglia di un’allegra tribù alloggiata in un bell’appartamento romano dell’Ottocento umbertino a Lungotevere dei Vallati 2: le mani spianate come pistole aperte, nei momenti cruciali del racconto il professore s’alzava all’improvviso dalla sedia, incurante degli spettatori, incitando “Vai! Vai! Vai!” e poi esplodeva in un liberatorio “Bang! Bang! Bang!”, mimando l’azione. Accanto al primogenito incuriosito “sparava e interagiva anche lui” con John Wayne o Gary Cooper, “trasformandosi da serioso professore di storia del cinema in un pazzo!”. Il piccolo Carletto finiva per ritrovarsi, fiero e stupefatto, doppiamente spettatore: del film sullo schermo e di quello che la gag paterna gli veniva rappresentando con tanta eccitazione.

A distanza di anni il ricordo, fatto racconto biografico e documento fondamentale di una vita – questo libro è il mio film più importante, sottolinea con orgoglio l’autore – ripropone la seriosità ufficiale di papà Mario svestendola del paludamento di educatore e genitore severo. E svelandone il cuore di bambino entusiasta che il suo senso per il cinema, “anche nell’accezione più emotiva e viscerale”, finiva per scoprire. Nasce anche così, dalla migliore filmografia d’oltreoceano vista con l’importante papà, l’iniziazione e la vocazione per il cinema di uno dei nostri più amati attori, sceneggiatori e registi, direttore di pellicole dal sapore dolceamaro, fine osservatore e impareggiabile interprete di vizi, manie e virtù all’italiana.

Ma è solo, quello della gag paterna, uno tra i tanti piacevoli, spesso esilaranti passaggi del lungo racconto autobiografico che prende le mosse – morti gli amati genitori di Carlo – dall’addio definitivo alla casa, di proprietà del Vaticano e ora destinata a nuovi affittuari, in cui l’attore è nato e cresciuto.

Il libro di Verdone – curato per Bompiani da Fabio Maiello -, con un capitolo della moglie Gianna Scarpelli dedicato al suo incontro con Carlo , è davvero un altro suo bel film da cogliere. La pellicola della vita ci introduce nel ricordo e nelle stanze dell’ ospitale casa, quella che ogni figlio vorrebbe avere, una dimora arredata con gusto e interesse, ricca di quadri, libri e tappeti, insieme austera e gioiosa, a volte persino scanzonata, sempre odorosa di pulito e di cera – ma mai perfetta, per la fortuna dei suoi abitanti – grazie alla guida illuminata del suo angelo, la mamma di Carlo. Il matrimonio di vero amore tra la sorridente e colta Rossana Schiavina, famiglia benestante e in vista, e Mario Verdone, umili radici e grandi qualità e capacità professionali, funziona a meraviglia, rallegrato dalla presenza dei figli Carlo, Luca e Silvia, sorella adorata e protetta che diventerà moglie di Christian De Sica, amico e compagno di scuola del primogenito. Nella grande sala di casa Verdone passano e s’intrattengono in divertenti conversazioni amici e personaggi noti, per lo più attori e registi, musicisti e artisti, coreografi come Aurel Milloss, i direttori d’orchestra Franco Ferrara, Pier Luigi Urbini, Carlo Franci. Verdone Junior, grazie alle conoscenze paterne, ha la fortuna di coltivare l’amicizia con Franco Zeffirelli e con Federico Fellini, che gli danno i primi ragguagli professionali. Il regista di Amarcord ha l’abitudine di diluire l’insonnia della notte in lunghe telefonate antelucane, in cui coinvolge il giovane Carlo, mentre Pasolini pignoleggia, un po’ pedante, sui testi critici di Mario. A Sergio Cafaro, insegnante al conservatorio di Pesaro, grande interprete di Schumann, Beethoven e Schubert, appassionato di botanica ed entomologia, Verdone riserva la memoria di un divertente cammeo. Cafaro era anche un rumorista formidabile e dunque produceva, con grande divertimento degli illustri ospiti, rumori di ogni genere: meccanici, molesti, imbarazzanti. Si divertiva anche a scovare sulle rubriche telefoniche i nomi più strani degli utenti. Ne aveva ricavato e pubblicato a sue spese un libretto, intitolato “Tutto un nome un programma” contenente un succinto elenco: tra i nomi che avevano colpito la fantasia di Cafaro c’erano quelli del sacerdote Cattiveria don Guido, di Nino Vermouth residente in via degli Amari, di Pistola Tranquillo, della Macelleria Frega, di Ragno Gelido di via Casal di Marmo…

Facevano parte della brigata di affezionati della casa anche i fratelli di mamma Rossana, tre giovanotti affascinanti e molto desiderati dalle ragazze romane, in testa l’avvenente e allampanato Gastone. Animatori della via Veneto degli anni Cinquanta, furono tra i colpevoli di un’allegra serata in costume a casa Verdone degenerata in un vero disastro a base di contumelie con il Maestro Vieri Tosatti. Il Tosatti era, ricorda Verdone, un esistenzialista altissimo, magrissimo, con aria funebre alla Nosferatu, compositore di musica dodecafonica, noto per aver scritto nel ’46 “Il concerto della demenza”. Poco ironico, intollerante delle musiche moderne proposte dai giovani di casa, aveva per ripicca otturato le prese della luce con delle forcine per capelli, provocando un corto circuito. Il seguito fu un mix di commedia (per l’osservatore Carlo, che ancora ricorda con divertimento) e di quasi tragedia per i padroni di casa, i coniugi Verdone, costretti a scusarsi con gli ospiti e a rimandarli frettolosamente a casa. “Quando da universitario mi accostai al cinema di Fellini capii la sua assoluta grandezza. Perché quella sera a casa Verdone c’era stata una lunga sequenza di un suo film in bianco e nero. A cavallo tra Il Bidone e la Dolce Vita”.

L’attore regista ci fa attraversare corridoi e stanze, rievoca voci e suoni di strumenti, di musiche, di presenze importanti, amate e desiderate. Ma non tace quelle sconce o ripugnanti di certi artisti di grande fama, autentici geni, dell’avanguardia come Arthur Adamov, noto drammaturgo russo, o del cinema underground, come Gregory Markopoulos, che non sanno però confrontarsi con la quotidianità, votati ad autoannullarsi in una fine tragica. Intenso è anche il ricordo delle pause estive al Lido di Venezia, dove Verdone senior era di casa tra gli anni Cinquanta e Sessanta, facendo parte dei selezionatori di film internazionali della Mostra del Cinema, e dove puntualmente il piccolo Carlo si mischiava coi giovani smaniosi di autografi dei grandi divi di allora: Alberto Sordi, tra l’altro dirimpettaio a Roma dei Verdone, Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida, Sophia Loren e molti altri. L’estate e la festa veneziana furono a volte guastate dagli esami a ottobre di Carlo, assente per “riparare” l’odiata matematica. Il padre professore non mancava di inviargli a domicilio lettere di richiamo al senso di responsabilità. A proposito di responsabilità, Mario non fece sconti al suo primogenito, ormai allievo del centro Sperimentale di Cinematografia, neppure quando si trovò ad esaminarlo, con reciproco imbarazzo, in veste di docente. Ignorando gli ammiccamenti facciali e i balbettii del figlio che tentava di istradarlo su una possibile domanda, il professor Verdone, dandogli del Lei, addirittura chiamandolo per cognome, lo invitò, con sgomento dei compagni, a ripresentarsi all’appello successivo più preparato. Episodio, se rapportato all’Italia di oggi, da vero Guiness dei primati.

Il film della vita dei Verdone mostra fotogrammi a colori e in bianco e nero. A volte colori e contrasti di luci e ombre finiscono per sovrapporsi. Come in uno dei più bei fotogrammi dove si parla di mamma Rossana.

“Quando erano ancora fidanzati mamma scrisse una bellissima lettera che conteneva questo passo: Mario, amore mio, devi sapere che ho chiesto un dono a Dio. Sempre che lui vorrà esaudirmi. Ho chiesto di mettere al mondo tre figli: due maschi e una femmina. Sarebbe l’ideale. Però ho anche fatto un patto con Lui. Vorrei che io non debba mai vedere morire i miei figli, costi quel che costi. Non reggerei al dolore ed è giusto che loro vivano e vadano avanti come ho fatto io”. Sono sicuro che Dio deve averla ascoltata, perché è avvenuto esattamente ciò che desiderava. Ha avuto due maschi e una femmina e ha lasciato tutti noi ventotto anni fa. Si può essere credenti o meno, ma quel patto altissimo che lei stipulò tanti anni prima è stato chiaramente accolto… Dopo quel mese di giugno del 1984 la casa non fu più la stessa. Aveva perso completamente la sua affettuosa serenità. Era sempre uguale, ma sbiadita, seria, senza vibrazioni, buia, silenziosa. Troppo silenziosa. Le luci filtravano come lame opache dalle lunghe persiane schiuse e la sua austerità si percepiva dal solitario tic tlac tic tlac della macchina da scrivere di mio padre. Un suono che era la colonna sonora di una grande dimora, con tanta oscurità e poche luci accese”.

Com’è per ogni suo lavoro, nel libro-film di Verdone si ride e si piange, in un melanconico mix di ironia e poesia, quasi amarcord scritto da un altro bambino entusiasta, figlio di quel primo, grande bambino. C’è tanto sentore di momenti felici, ma anche “sapore di sonno e di lacrime”, come dice la bella battuta di un enigmatico film di Bergman prestato ai cineforum di anni passati. Perché dentro scorre l’universale pellicola di esistenze spese bene, speranzose di aggiudicarsi un giorno uno di quei posti in piedi in Paradiso, che sono l’umile, dignitosa aspirazione di quanti s’affannano, da protagonisti veri, nel film “dolce e doloroso” della vita.

Nelle immagini finali la casa ormai vuota, morto anche Mario, privata dei mobili, dei preziosi quadri, dei suoi odori e rumori, della vita bella e delle sofferenze che l’hanno attraversata, risuona di stanza in stanza delle note di Jimy Hendrix, uscite da uno dei preziosi vinili del collezionista Carlo. Che, prima di riconsegnare le chiavi all’addetto del Vicariato, segue l’impulso di fissare definitivamente, con l’occhio della macchina da presa e con la voce della musica, quell’ultimo incontro con la sua casa e il suo passato. L’obiettivo indugia sulle pareti sbiadite, tra le tracce dei quadri della sala, dove insiste la luce che entra dal grande terrazzo, poi segue l’infilata di porte sul corridoio… Forse la base per un altro film, ma più avanti, dedicato alla “terza vita” di Carlo.

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