Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Gente comune

O LANGUIDE CAREZZE

DEDO ROSSI - 15/11/2019

carusoAvrà avuto cinquant’anni, anno più, anno meno. I capelli grigi pettinati all’umberta e le mani nervose, si muoveva lentamente, in modo ragionevolmente calmo. Non era “uno del viale”, veniva “da fuori”. Viveva da solo.

Una mattina di maggio – una di quelle mattine in cui gli odori si fanno più acuti anche a Belforte – era stato colto da una grande voglia di cantare. Non quel canticchiare tra i denti, con il pensiero altrove, al mattino davanti allo specchio per prepararsi al giorno. La sua era una vera e propria voglia di cantare a pieni polmoni, a squarciagola, senza ritegno. Aveva quindi deciso di cantare così, senza vergogna, subito dopo cena.

La prima volta si erano aperte le finestre delle case vicine, quelle che guardano sul Vellone. Cosa sarà mai successo, questa era la domanda sulla bocca di tutti. Abitava al numero 108 del viale, sopra il Mattavelli macellaio e la Bruna fruttivendola. Il suo balcone guardava verso il Vellone, verso la casa dei Rossi e verso la falegnameria del Mazzuchelli detto “S’cianin” perché veniva la Schianno.

Nessuno sapeva bene da quanto quest’uomo abitasse qui. Anzi, nessuno si era mai accorto di lui. Solo controllando la mattina successiva, qualche pensionato curioso aveva poi che quell’appartamentino non aveva la targhetta sulla porta. Per questo di lui non era mai saputo il nome. Qualcuno ricordò di averlo visto partire presto al mattino. Tutto qui.

Quel canto era stato ascoltato da molti. Sarà stata una cosa strana, di quel giorno, sarà capitato qualcosa a “Caruso”. Sì, perché quasi senza volerlo avevano cominciato a chiamarlo “Caruso”, come il tenore. E da allora avevano cominciato ad osservarlo con curiosità.

Si erano accorti che “Caruso” andava e tornava alla stessa ora, vestito con dignitosa eleganza. La cravatta dal nodo curato, la camicia stirata, forse non perfetta, ma stirata. Dalla direzione e dall’ora ci fu chi avanzò ipotesi. Percorreva via Salvore, voltava a destra verso via Tonale: il percorso che conduce alla Stazione Nord. Una donna, una calabrese arrivata sul viale da pochi anni e aveva sposato subito un operaio delle officine Testa, aveva messo in giro la voce che lavorasse a Malnate, all’Ermoli Mole. Da dove venisse la notizia era un mistero.

Dopo cena, “Caruso” con ritualità minuziosa scrollava le briciole dalla tovaglia sul balcone. Le lasciava in vista per gli uccelli, nella stagione degli uccelli. Piegava la tovaglia in quattro, con quella meticolosa precisione che hanno a volte gli uomini nelle case senza donne. Poi rientrava lasciando la finestra aperta. Solo dopo il rientro tutti si erano accorti di essere in attesa, in attesa del suo canto, come un evento magico. Erano i bambini che per primi tacevano, anche i figli del Mazzuchelli, che gridavano sempre.

Era allora che “Caruso” cantava. Da quel giorno aveva iniziato a cantare sempre, alla stessa ora dopo cena. La voce si espandeva con sicura pienezza. Lo si poteva ascoltare fino al Caffè Italia, quello dei Farè, o fino all’officina dei Biotti. Accompagnava le parole con modulazioni ricercate, per esprimere “il sentimento”. Nel suo canto la malinconia non era tenero ricordo, era dolore.

Il suo repertorio era limitato: lo strazio del tenore in “Tosca”, quando dopo il sofferto “olezzava la terra” si spandeva in “o dolci baci o languide carezze”, oppure “Era demaggio” e poco altro. E qui la voce tradiva la commozione. Il sentimento che “Caruso” inseriva in questi brani toccava tutte le corde della sensibilità più segreta di chi ascoltava. Si era pensato per questo che fosse un “napoletano”, perché erano gli anni degli arrivi dal sud. E solo i napoletani, si diceva, mettono tutto questo sentimento nel cantare. Noi, si diceva, cantiamo in modo diverso.

 Ma stranamente nessuno gli chiese mai nulla un po’ perché non lo si incontrava mai per strada e un po’ perché non si sa. Eppure tutti aspettavano quel canto, a quell’ora. E fu così per mesi, non so quanto ma per mesi.

Poi d’improvviso quelle note si spensero: “Caruso” non cantò più. I primi giorni i vicini pensarono a una malattia della gola. Qualcuno disse perfino di averlo visto partire, ma non era vero. Un altro avanzò l’ipotesi che fossero intervenuti i vigili per farlo smettere, per disturbo della quiete pubblica. Si fecero perfino ipotesi sul possibile “delatore”. Però se ci fosse stato un delatore di Belforte, la “Mattavellina”, la moglie del Mattavelli macellaio l’avrebbe sicuramente saputo.

Ma sta di fatto che “Caruso” non cantò più. Dopo i primi giorni la sua voce cominciava a mancare. Era un appuntamento tradito. Lo si rivide a spargere le briciole sul balcone, tutto come prima. Ma “Caruso” continuava a non cantare.

Tutti lo guardavano con simpatia, ora, quando lo si vedeva sul balcone. Ma nessuno aveva pensato di fargli domande. Sta di fatto che “Caruso” non cantò più.

E di nuovo oggi, dopo anni che lui si è trasferito chissà dove, tutti si chiedono ancora perché “Caruso” avesse smesso di cantare. E si interrogano sul perché mai nessuno avesse pensato di chiederglielo.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login