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Il punto blu

VIVA L’INQUIETUDINE

DINO AZZALIN - 22/11/2019

cubaPerché scrivi? – mi chiede all’improvviso il mio compagno di viaggio. Già. Una domanda a cui hanno risposto nomi eminenti di tutte le epoche, e mai in modo univoco. Mi trovo in una casa particular, appena resa legale dal governo cubano, una sorta di B&B dell’Avana in una zona decentrata, barrio Vedado, calle F, numero 611, un appartamento modesto ma confortevole. Le stanze sono grandi, la cucina piccola e c’è una sala con un importante tavolo rotondo. A finestre aperte si vedono i muri o addirittura quel che sta mangiando il vicino della casa accanto. Da un certo lato si scorgono la Avenida de Los Presidentes, la Facoltà di Medicina e poche centinaia di metri più in là l’Avenida 23, dove nel 1960 Alberto Korda scattò la famosa foto del “Che” che divenne icona della rivoluzione nel mondo. Da qui si arriva dal mare del Caribe e al Malecon habanero.

La domanda del perché si scrive può essere assimilata a quella del perché si legge o del perché si viaggia. Mi trovo combattuto tra la complessa architettura stilistica di Cicerone e la densa concisione di Tacito. “Sono curiosa di capire le giustificazioni di chi non trova pace”, così mi aveva scritto un’amica a commento di un articolo di critica del mio ultimo libro. E in un Paese che non è il mio, con uno sbalzo di temperature davvero micidiale, con la foto del Guerillero Heroico di Korda ovunque e gli slogan della rivoluzione di Fidel, tutto diventa ancora più strano. Ma scrivere è davvero una giustificazione di chi non trova pace? Scrittura come viaggio è una bella idea invece, ma prima ancora come lettura, ancor meglio come rilettura. Ieri sera riflettevo sull’“inquietudine”, cui nel Film Troy allude Achille in partenza per la guerra di Troia: “sono inquieto e combatto contro la paura di un guerriero, e se morirò in battaglia sarò ricordato per l’eternità”.Ecco, si scrive perché la nostra vita non sia stata vissuta invano o perché rimanga qualcosa dopo di noi, un’eroica testimonianza? Forse troppo banale, ma, se non fosse così, non ci sarebbe stata l’Iliade di Omero e non avremmo mai conosciuto una leggenda di secoli e secoli fa. Come diceva Umberto Eco, chi ha settant’anni e non legge, quando morirà avrà vissuto solo una vita, la propria, chi invece legge ne avrà vissute 5000 o più. E per chi scrive bene forse le parole vivranno e varranno per sempre, dipende, ma, come direbbe il Premio Nobel Herta Müller, “con quale coraggio si mettono sulla pagina!” È la scrittura stessa a rivelarcelo, con la lettura del mondo com’era. Apro il libro che ho sul comodino, il primo romanzo di Garcia Marquez, classe 1922, “Foglie morte”, che riporta a quello che per la nostra generazione ha significato Macondo, un “frascame ravvolto, riottoso, formato dalle mondezze umane”, che fa conoscere una vita, quella di Meme, la vita degli guajiros, gli indios massicci e bassi che vivono in gran parte ad Aracataca, un villaggio sotto la Sierra Nevada de Santa Marta, tra le piantagioni di banane che forse senza i “Cent’anni di solitudine” non avremmo mai conosciuto. Nessuna figura umana è in-possibile, in-pensabile nella scrittura e i libri sono i miei compagni di viaggio prediletti, che a volte portano alla luce tesori dimenticati. Prima di partire mi sono fatto scegliere da loro, prendendoli dalla mia libreria, come in un rito magico, perché dentro ogni volume c’è un prestigiatore che prepara gesti e parole propiziatorie al cerimoniale della lettura.

Mio fratello potrebbe far parte di un romanzo e diventare un protagonista dostoevskiano. Vive a Cuba e, dopo un’avventura esistenziale inspiegabile, a tratti felice e grottesca, infine tormentata e tragica, ha avuto il coraggio di voltare pagina, trovando al di là dell’Oceano un po’ di pace. Mio fratello non legge tanto, scrive zero, ma ha una filosofia certa su come vivere con poco e viaggiare molto. È stata una rivelazione anche per me. Borges definisce certi personaggi “suicidi per felicità, assassini per benevolenza, persone che si adorano al punto tale da separarsi per sempre, delatori per fervore e per umiltà”. Mio fratello ha una ferita insanabile che porta con sé ovunque, e anche qui è in fuga, ecco perché gli voglio bene, perché ha già avuto, in fatto di dolore, ben più di quello che un uomo possa meritarsi. Voglio solo la sua felicità, per quanto estranea, distante e straniera. Gli eroi della scrittura sono personaggi spesso presi dalla strada, da quartieri come questi, e a volte sono così veri e scellerati che realizzano fantastiche cabale dando origine a una narrazione realista di straordinaria portata. Le loro vicende sono così improbabili da non poter essere concepite dalla realtà senza fatica. Seguite questo passo. Mio fratello ama spostarsi da una parte all’altra di Cuba su quelli che lui chiama i “camioni”, veri e propri camion che anziché solo merci trasportano anche persone a costi concorrenziali rispetto al normale trasporto pubblico. Da una settimana i “camioni” non passano, perché non c’è più gasolio per via dell’embargo degli USA e dei problemi economici del Venezuela, che, dopo la caduta dell’impero sovietico, è il paese dove Cuba importa più petrolio. Ci sono lunghissime code ai distributori di carburante giorno e notte. E quei pochi “camioni”che circolano hanno fatto lievitare il prezzo più del doppio. D’altronde si fanno sentire i sessant’anni d’embargo americano da quando l’8 gennaio 1959 Fidel Castro e Camillo Cienfuegos entrarono in Avana, compiendo l’atto finale della rivoluzione che mise in fuga il dittatore Batista. Oggi qui le cose sono molto cambiate dall’ultima volta che sono venuto, e forse l’orgoglio di un popolo fiero non basta più, anche se Obama, presidente molto amato dai cubani, sostenne che il problema di una rivoluzione è tenerla in piedi, e c’è davvero da credergli. E soprattutto con un presidente USA come Trump, che ha chiuso l’ambasciata americana motivando la decisione con una puerile affermazione: “ci stavano avvelenando”. Qui lo vorrebbero tutti morto, compreso Luis, la nostra guida. Tutto è più difficile in un tempo in rapida evoluzione, lui è costretto a lavorare con i turisti per guadagnare qualcosa di più piuttosto che fare l’ingegnere, professione per cui aveva studiato. Ebbene, tornando a noi, mio fratello allora ha deciso di prendere il treno per arrivare a Holguin, passando da Guantanamo e poi fermarsi da amici a Santiago de Cuba. Per fare questo ha dovuto prenotare un biglietto e, naturalmente, si è ritrovato tra una folla di gente che cercava di salire come ai tempi del far-west. Parte un treno al giorno. Perciò paga una “propina”, una mancia superiore al costo del biglietto, così la bigliettaia alla vista del danaro, il cuc-cubano (convertibile) che mio fratello gli fa scivolare nella mano, prenota subito un posto desayuno incluido. Tutto il mondo è paese e nel ‘92 la legge era la stessa, a Cuba si viene per la rivoluzione, per il rhum, per i sigari e per le mulatte. C’è molta letteratura in tutto ciò, ed Hemingway ne scrisse appieno, per questo oggi è un mito al pari del “Che”, ma, dicono qui, è pur sempre uno scrittore americano e non cubano…Per la verità anche il Che è argentino… Intanto mi trovo all’Habana Libre, hotel a 5 stelle, come relatore a un congresso medico-farmacologico invitato da Renè Delgado past-president della farmacologia cubana, sono in compagnia di Stefano, collega e amico che sta leggendo il mio ultimo romanzo e che mi racconta di un estratto dalla bacopa munieri, pianta che vive nei paesi umidi come lo Sri Lanka e l’India, utilizzato nella preparazione di farmaci contro la demenza senile. È lui che mi ha coinvolto e a lui devo molto della mia formazione scientifica, lui di una età, di un’altezza e di un peso superiori ai miei, ma che ci pongono sullo stesso piano e soprattutto sulla stessa fatica nel fare le scale. E abbiamo un pensiero e un cesso in comune che unisce le due stanze da letto, con due porte che danno una sull’altra. Da qui fa le domande più facilmente e dice che non è da tutti poter viaggiare con l’autore del libro che si sta leggendo. Dopo Marquez, divorato in una sola notte, riprendo in mano “L’invenzione di Morel”, di Adolfo Bioy Casares, scrittore argentino, un vecchio “pesanervi” di Bompiani, con il preciso scopo di addormentarmi, ma la frase “le rocce solitarie attraversano la notte” è una aragosta letteraria prelibata tutta da gustare, che viene all’alba e poi al mattino sotto le pale del ventilatore. Dopo queste intense letture, una nuotata nel caldo mare della Playa del Este, dove un tempo proliferavano i casinò del vizio e della “corrutela” batistiana, oggi abbattuti da Fidel, e al loro posto una spiaggia infinita di sabbia e palme e qualche ciringuito, in cui gustare pesce appena pescato. E alla sera un mojto e due sane risate fanno rivivere l’epica letteraria hemingwayana e danno un po’ di quella sana felicità che ci meritiamo. La grande letteratura va riletta, e questa è la rinnovata idea anche a Playa del Este. Con gli strumenti che si hanno oggi si possono scoprire brillii improvvisi, come a pagina 70 il ritrovamento di un pezzettino di carta “Lo sapevo che eri qui…ho paura, stasera tardi passerò a trovarti…il cancello mi dirà tutto”. Un cancello parlante è la vera rivelazione, come rivedere un vecchio film di cui si ha nostalgia, e un papelito che vola via e che seppellisco sotto la sabbia, mentre guardo il caldo orizzonte del Caribe. Cuba è una donna che racconta la sua storia con le rughe che parlano come le crepe delle case, con le palme e i canneti dello zucchero. Tra le strade meno inquinate, senza traffico e caos, come in tutte le capitali del mondo, chiedo a un tassista: “E lasmulatas?”. Il tassista risponde sorridendo in modo proverbiale. L’Avana è stata dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità? Sì, gli rispondo. A questo punto apre a un sorriso eloquente, y ahoralas mulatas también! Arrivo in fondo al Paseo del Prado, dove alcuni studenti in uniforme giocano dopo essere usciti da scuola, e dove inizia il Malecon, quasi otto chilometri di lungo mare, che di sera diventa il passeggio della miglior juventud habanera, mi imbatto in uno dei più bei monumenti che sia stato dedicato a un poeta e scrittore: Juan Clemente Zenea, martire dell’indipendenza cubana, fucilato il 25 agosto del 1871 per attività sovversiva. Questi i suoi versi incisi sulla pietra: “No busques volando inquieta mi tumba obscura y secreta, golondrina. No lo ves? En la tumba del poeta no hai un sauce ni un cipres!”(“Non cercare volando, o rondine, la mia tomba oscura e segreta. Non lo vedi? Sulla tomba di un poeta non c’è né un salice né un cipresso”).

Sembra un incontro casuale, e invece no! È la parola che salva. Mentre passeggio, mio figlio mi invia tramite whatsapp l’elenco delle nazioni dove si è più felici, tratto da un libro che sta leggendo, “The Key to Happiness” di Meik Wiking, Cuba non è tra le prime dieci, ma nemmeno l’Italia.

Ben venga dunque l’inquietudine che viaggia con i libri, nel cielo dell’amore, con la memoria del vivere e la magia degli incontri.

Adesso tutti i pivieri si metteranno a cantare

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