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Società

DIGNITÀ

MARIO DIURNI - 05/12/2019

finevitaL’importanza e la complessità dell’argomento, che investe i principi stessi della convivenza oltre che della vita individuale, induce ad ulteriori riflessioni su di un tema presente in ambito internazionale, nel dibattito scientifico e pubblico da circa un secolo e mezzo e che da alcuni anni ha fatto irruzione anche nel nostro Paese: la possibilità cioè di ricorrere al “suicidio medicalmente assistito”, l’eutanasia, come soluzione definitiva per una malattia grave e prolungata o per una intensa sofferenza fisica ed anche psicologica. La discussione investe, come già scritto, ambiti diversi e contrasti netti e divisivi si sono avuti anche in ambito medico, con la posizione autonoma assunta dalla Fnomceo (federazione nazionale degli ordini dei medici) riguardo la sentenza della Corte Costituzionale, in contrapposizione al parere di illustri bioetici e del Comitato nazionale di bioetica, che nella forte contrapposizione esistente al suo interno tra cattolici e laici, ha scelto di non scegliere.

In generale, ma in particolare in questo caso, la bioetica ha “ una vocazione normativista “, è somma cioè di prescrizioni giuridiche basate esclusivamente sulla scienza e afferma pertanto che la giustizia non può che essere che quella basata sulle evidenze scientifiche e non può essere anche un ideale, una convinzione, un pensiero filosofico o religioso, un sentimento, insomma tutto ciò che costituisce la cosiddetta “etica medica”. Anche l’etica medica ha valori, norme e principi da rispettare, ma considera la complessità della malattia e della persona malata, contestualizzandoli, umanizzandoli, eliminando tutto ciò che è dogmatico, standardizzato, tentando di calare nella realtà un principio universale, riconoscendo necessariamente le differenze esistenti nelle diverse situazioni.

La definizione di “suicidio medicalmente assistito” inoltre contiene una evidente contraddizione, in quanto la medicina ha come suo fondamento il principio ippocratico valido da secoli, ribadito peraltro dalle norme deontologiche, che qualsiasi atto medico debba tendere a curare, a far sopravvivere anche chi vuole morire, fermo restando il rifiuto dell’accanimento terapeutico o meglio “della prosecuzione ingiustificata delle terapie”. Il suicidio medicalmente assistito inoltre, differisce soltanto formalmente dall’eutanasia, sia attiva che passiva, in quanto in entrambi il risultato drammatico è lo stesso, cioè la morte della persona malata. Altra cosa invece è la valutazione della giusta proporzionalità delle cure e delle speranze ragionevoli di guarigione.

Il suicidio assistito viene visto dai suoi promotori come un diritto da assicurare ad ogni costo, in quanto espressione della libertà personale, in base al principio dell’autodeterminazione; ma proprio allo scopo di rispettare questo principio andrebbe demedicalizzato e non considerato un atto basato esclusivamente sulla scienza, ma una scelta libera, esistenziale della persona malata, che può chiedere al medico, che magari lo ha curato per una vita, compassione e solidarietà per la sua scelta estrema.

La compassione e la solidarietà però non possono essere “assistenza medica” automatica alla volontà suicidaria, in quanto sono per loro natura, anche per ragioni deontologiche, antisuicidarie; va prevista quindi l’obiezione di coscienza che debba essere fondata sull’autonomia di giudizio del medico, che a sua volta deve farsi interprete di una realtà ontologicamente complessa come quella dell’uomo malato e non essere un mero esecutore di una norma, anche se bioetica.

 Non si tratta di affermare l’onnipotenza dei medici, che decidono in autonomia chi assecondare o meno nella volontà suicidaria, ma è necessario lasciare ai medici stessi il diritto di “ scegliere deontologicamente” se e come applicare una norma, perfino una sentenza. Il medico deve essere cioè “un interprete”, assumendosi “una responsabilità ermeneutica, esegetica”, partendo non soltanto da una norma, ma dall’uomo sofferente che chiede di morire, in quanto persona che vive in relazione con gli altri e non semplice individuo che in nome di parametri sanciti dallo Sato, debba essere eliminato, come avvenuto purtroppo in alcuni casi recenti.

Crediamo che questa sia la strada maestra da percorrere, senza scorciatoie, l’elaborazione cioè di “una cultura della vita”, nella fattispecie di una cultura della sofferenza, entrambe rispettose della dignità delle persone viste nella loro unicità, pur nelle differenze delle varie situazioni esistenziali.

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