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Quartieri

DOVE VENNE IL RE

DEDO ROSSI - 20/12/2019

 

Biumo ha una geografia strana, un po’ gelosa della propria storia. Parliamo di Biumo inferiore, perché l’altro rione, quello di Biumo Superiore, è distante ed estraneo, trionfante e superbo con le sue ville di collina, con le sue ville Ponti, con villa Panza e con tutte le 40 colonne di villa Mozzoni.

Quando si parla di Biumo si parla ovviamente di Biumo inferiore, quello che non ha contorni: nessuno sa dove Biumo inizia e dove finisce. Sulla carta sembra un quartiere enorme e una parrocchia altrettanto. Ma se si scende tra la gente si scopre che non è così. La percezione è diversa. Già via Adamoli, tecnicamente sotto Biumo, è percepita come Varese, come parte della città, come “altro”. Per non parlare di viale Belforte, che è considerato Biumo al massimo fino al ponte della Ferrovia dello Stato: da lì in avanti tutti si sentivano già orgogliosamente di Belforte. E anche Valle Olona, per la gente, iniziava subito dopo l’altro ponte della ferrovia o qualche curva dopo.

Scarta di qui, taglia di là, la percezione di Biumo riduce il rione al vecchio nucleo storico, quello che si racchiude attorno a via Walder e via Garibaldi, fino a piazza 26 maggio o poco più. L’unica assoluta certezza era che Biumo finiva (o iniziava) con la chiesa della Madonnina in prato, dalla bella facciata del 1676, piccolo gioiello barocco che fa da guardia a Biumo come una casetta di dogana. Proprio da lì, accanto alla chiesa, parte il gruppo di vecchie case (che allora veniva chiamato “la casba”) che conserva ormai poco della fierezza architettonica degli antichi edifici.

Dal punto di vista urbanistico, la storia aveva visto sorgere palazzi di un certo pregio, la quattrocentesca casa Frasconi in una condizione triste o palazzo Orrigoni con il suo portale ad arco con lo stemma datato 1561, ad esempio. O l’intera area Cagna che dopo decenni e decenni di fatiscenza, ha sopportato un sofferto restauro per arrivare finalmente ad un utilizzo in campo culturale. E poi resta, con continua dignità, la “ Casa San Giuseppe lavoratore” a cui si accede da via Walder e da via Sonzini. Qui aveva sede lo storico “Collegio Torquato Tasso”, che aveva visto anche allievi illustri, come il pittore Lucio Fontana (quello dei tagli sulle tele, per intenderci banalizzando), che qui aveva studiato dal 1906 al 1912. Finita la gloriosa vita del “Torquato Tasso”, nell’edificio aveva avuto sede la “Casa San Giuseppe lavoratore che era stata creata come “pensionato per lavoratrici” da monsignor Sonzini per accogliere le numerose donne che venivano a lavorare a Varese (domestiche, insegnanti e infermiere). Sacerdote attento alle tematiche sociali, fondatore della organizzazione sindacale dei lavoratori della terra, fondatore e a lungo direttore del settimanale “Luce”, Monsignor Sonzini è ricordato ancora oggi con affetto dai varesini anche perché aveva accolto e dato ospitalità negli anni del fascismo ad ebrei e a rifugiati politici nella sede storica di via Donizetti, vicino al negozio Vercellini.

Ma torniamo all’urbanistica. A Biumo, negli anni del benessere si era pensato che tutto dovesse essere raso al suolo, perché così tutto sarebbe stato più “bello” e più adatto ai tempi. La percezione del “bello” era forse diversa. O forse questa “forza distruttiva” più semplicemente nascondeva la “bellezza degli affari”. In quegli anni qualche dissennato progetto aveva fatto sorgere i condomini in fondo a via Walder, quelli dove si trova l’albergo Mira. Messi lì, tra le vecchie case come corpi estranei, rappresentavano avanguardie di future sognate trasformazioni globali.

Erano anche gli anni in cui era stato edificato a metà di via Garibaldi l’enorme condominio “Palazzo del Sole” che aveva vinto il prestigioso riconoscimento di “miglior condominio europeo”. Sarà stato pur geniale per il modo di catturare la luce e il sole, nel suo sviluppo verticale a gradoni, ma in quel contesto il “Palazzo del Sole” era stato considerato subito da molti abitanti come un corpo estraneo. E poi ancora: il palazzo davanti alla Chiesa parrocchiale, sorto sulle ceneri di Casa Perelli. O il condominio di largo 4 novembre, che aveva mutato il volto della piazza verso il palazzo Litta Modignani. E, diciamoci la verità, anche sulla nuova chiesa sorta accanto alla vecchia parrocchiale di San Pietro e Paolo ci sarebbe da dire. Ma i tempi erano quelli.

Eppure quelle case vecchie, quelle di sempre, anche se davano poco spazio al sole, avevano visto crescere tante famiglie spesso modeste. Avevano visto dignitosamente sorgere e creare lavoro decine e decine di officine e di piccoli negozi: insomma, un tessuto di grande vitalità e di genialità artigiana (ma anche, se vogliamo essere sinceri, una certa “dignitosa e riservata” malavita). Erano comunque case che nascondevano una storia, sempre. Ad esempio, in via Frasconi, si era svolta l’orgogliosa vicenda umana della Famiglia Rame, famiglia di teatranti a cui apparteneva Franca Rame. Dei Rame, negli anni sessanta restava ancora l’incredibile magazzino fatto di quinte, di oggetti e di costumi, migliaia di “cose” di teatro, un vero museo: i ragazzi ci andavamo per noleggiare i vestiti dei vari secoli storici per qualche recita in oratorio o il frac per qualche festa di carnevale. E dove fosse finito negli anni questo patrimonio è un mistero.

In queste case il tempo, come dicevamo, aveva visto resistere qualche storico abitante accanto ai primi immigrati. Poi era stato il momento della folla multicolore che si era aggiunta ai primi albanesi e slavi: una concentrazione di diversità maggiore rispetto ad altri rioni.

E accanto a questa antica tipologia abitativa, a Biumo un tempo si erano visti progetti urbanisticamente interessanti, non solo come opere singole ma come interventi pensati sul territorio. Per primo il Quartiere Belfiore, che si affaccia sul Largo 4 novembre e sul viale dei Mille. Un progetto geniale dell’architetto Flumiani che guardava ad esempi urbanistici inglesi, dove palazzine gradevoli, diverse le une dalle altre, creavano un quartiere vivibile e sereno, con un progetto di viabilità interna studiato e imperniato attorno ad una piazza che poteva diventare luogo di incontri sportivi o teatrali. Era venuto perfino il re Vittorio Emanuele III, il 20 ottobre del 1923, ad inaugurare questo quartiere di cui tutta la nazione era orgogliosa: era il nuovo che avanzava, era la modernità e l’esempio dell’italica genialità. E ancora oggi, nonostante qualche garage in lamiera e qualche portoncino d’alluminio di troppo, si coglie bene e si apprezza il progetto globale.

Anche le ville che si affacciano su via Carcano, tra via Cairoli e via Adamoli avevano rappresentato un funzionale esempio di architettura, ancora oggi da guardare con interesse nonostante l’enorme asfissiante traffico che scorre davanti.

In ogni caso, la difficoltà di definire il territorio resta comunque il destino di Biumo, rione che in anni antichi aveva rivaleggiato con dignità e forza con Varese, città percepita come avversaria, lasciando sul campo morti e feriti e facendo intervenire imperatori e vescovi per dipanare la matassa di questa contesa continua. Biumo, allora, era un nucleo rissoso nel suo orgoglio nel voler difendere, armi in pugno, i suoi confini chiari e indiscussi.

Oggi le necessità dell’Amministrazione Comunale di creare le “aggregazioni comunali” e l’inevitabile nascita delle Comunità Pastorali, per quanto riguarda la Chiesa, hanno disegnato per Biumo inferiore degli strani confini che però la gente fatica a riconoscere.

Questo è stato possibile, forse, proprio perché Biumo, quello inferiore, quello dai “confini liquidi” davvero non ha mai avuto confini naturali.

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